martedì 14 agosto 2018

Qualche tempo fa ho lavorato a un video che mi piaceva poco. Il tizio che me l’ha commissionato ha obiettivi, gusti, visioni del mondo diversi dai miei. Il lavoro è comunque finito. Abbiamo trovato un compromesso, un punto d’equilibrio che ha scontentato entrambi. Ma non così tanto da far saltare la lavorazione. Dopo la consegna del video, un giorno lui mi dice che vorrebbe correggere la voce di un personaggio, un uomo di mezza età presente in una sola scena, sempre fuori campo. L’uomo parla con i due figli con il tono correttivo dell’allenatore in campo, che commenta, aggiusta, chiarisce, sprona. Quei padri che ti danno suggerimenti anche su come sognare la notte. Il mio cliente si lamentava che la voce di questo personaggio fosse troppo accentata, si risconosceva troppo facilmente la provenienza dell’attore. Preferiva trovare qualcuno che potesse sembrare appartenente a nessun luogo e a nessun tempo. Un desiderio molto diffuso, in questo tempo e in questo luogo.
Con la mia falsa buona educazione nichilista lo lascio fare. Si occupa di tutto lui: reperimento del doppiatore, registrazione della voce. Mi invia tutto. Il doppiaggio è terribile. Il personaggio si è trasformato: il padre verboso, invadente, ma in fondo simpatico, è ora un sadico ufficiale dei marines, saltato fuori da qualche film di terza mano, diretto negli anni ’80 da Ronald Reagan in persona. Un tipo paterno come una ghigliottina. Con improvvisi picchi del volume sonoro, tipici del militare o del prete frustrato sessualmente.
Sono tentato di farglielo rifare. Poi lascio perdere, come un reporter che filma un episodio sanguinoso di una guerra civile.
Ma in fondo, penso, non è accaduto niente di strano. La visione del mondo del mio cliente è questa. Il film che ha scritto e che dirige, quotidianamente e inconsapevolmente, è fatto di questi (pochi) personaggi. Il cinema industriale funziona così: poche figure semplici e molto caratterizzate. Non si può pretendere da uno sceneggiatore per multisala di avere nel suo immaginario un ampio ventaglio di personaggi, ricchi di sfumature, complessi. Contraddittori, anche. Come inserire in un film industriale un padre simpatico ma soffocante, onnipresente ma innocuo, terribile ma dolcissimo? Nel supermercato presso cui si serve lo sceneggiatore, è disponibile solo una figura che ha nel suo repertorio l’esercizio del controllo censorio sul proprio figlio, ed è il prete-militare: ascoltando la sua voce fuori campo io immagino automaticamente che abbia gli occhiali, detesti il rock e i cheesburger, sia un fanatico esecutore delle leggi statali, scopi poco, vesta con colori freddi, abbia la carnagione chiara, il fisico poco robusto, i capelli corti, gli occhi piccoli e lo sguardo fisso. Nessuna scoperta. Nessun imprevisto.
Anni fa ho visto la versione cinematografica de L’insostenibile leggerezza dell’essere. Un romanzo molto bello. Con personaggi molto belli. Il film rivela la povertà, la ristrettezza dell’orizzonte dello sceneggiatore e del regista che hanno dato volto, corpo, espressioni alle figure di Kundera. E ciò è avvenuto secondo la legge della banalizzazione adoperata dal cinema industriale. Una donna come Sabina, che fa l’amore con Tomas, senza che i due siano una coppia; e che desidera anche Tereza, senza essere una lesbica dichiarata, non può essere interpretata in altro modo che come ninfomane, e a ogni inquadratura il regista indugia sul suo sorriso lascivo e sul suo sguardo voglioso. Tomas, il quarantenne sempre altrove, il Don Giovanni disperato che non sopporta che una donna con cui ha trascorso la notte lo senta lavarsi i denti al mattino; ecco, quest’uomo senza spiaggia e senza foce, solo per il fatto di aver avuto circa 200 donne, sullo schermo si trasforma in un maniaco sessuale, con gli occhi sbarrati di chi spia una quindicenne spogliarsi alla finestra di fronte.

Ciascuno di noi guarda una scena. Io guardo, vedo una scena. Non so quando e non so dove. Mi si presenta davanti agli occhi il fermo-immagine di una scena, pensata, voluta, scritta e diretta da me. Io sono uno dei personaggi della scena. E quando esco di casa, l’impressione della scena, la disposizione dei personaggi, il significato delle loro, delle nostre pose mi accompagna a lungo. Come il riverbero nelle palpebre chiuse, dopo aver fissato una fonte di luce. A lungo. Forse per sempre. E non vedo altro che i miei personaggi, le dinamiche che li legano, i conflitti, i falsi movimenti, i falsi cambiamenti. La scena mi difende. E mi distrugge. Mi nutre e soffoca. E ne ho bisogno. E la ripropongo a ogni istante. E la riscrivo ogni giorno, per evitare che si usuri, che i personaggi sbiadiscano. E sostituisco gli attori che invecchiano, perché i mutamenti del loro corpo, le rughe, il respiro più affannoso, il bianco dei capelli, la gestualità imprevista non corrompano i personaggi, non si smarchino dal personaggio, e l’attore scarti di lato. E la scena crolli. E il palco crolli.
Così riesco a mantenere congelato il fermo-immagine. Lucido, levigato, eterno. Senza tempo, grazie al tempo.


Un regista che ama più i suoi personaggi che gli attori che li interpretano va abbandonato.

domenica 4 marzo 2018

Esempio 1. Il percorso dall’auto parcheggiata fino alla piazza dura circa otto minuti. Un cortometraggio. Una narrazione che si dispiega come una lunga soggettiva fluida, ruffiana. E il regista fa pulsare il racconto, alterna piani più ampi a dettagli riflessivi. L’espressione intontita e meravigliata di un anziano fuori dal bar. La schiena rossa lontana di una ragazza che si sporge dal parapetto di una terrazza mistica. La strada lunga, irregolare, e le formiche fantasma che la percorrono ordinate, pensose. Un ragazzo africano mi taglia la strada, mi sorride. Come fosse amicizia. E invece è una transazione commerciale: dopo una ventina di secondi lui va via con due euro, io con la conferma di appartenere alla categoria degli europei generosi. L’incontro è durato il tempo necessario. Come un’inquadratura di un western di Ford. Come lo sguardo sul deserto nord-americano o su un gruppetto di Apache pennuti. Il ritmo della narrazione prosegue fluido, vivace, armonico, coerente: i selvaggi di Ford hanno assolto la loro funzione e scompaiono, divorati dalla grande catena di montaggio dello sviluppo drammatico del film. Il ragazzo africano ha assolto la sua funzione di breve pausa nel mio percorso lineare fino alla piazza. Una digressione nella narrazione. Digressione solo apparente, però, se serve a definire la fisionomia caratteriale del protagonista: civile, disinvolto, disponibile a rallentare la marcia. Nell’economia del cortometraggio questo calo di ritmo è necessario, come in una sinfonia – una composizione di immagini orchestrata con mestiere dal regista e dal montatore: dettaglio sul viso dell’anziano davanti al bar; campo lungo con ragazza lontana di schiena; breve dialogo affettuoso e aperto con il ragazzo di colore; campo lungo, dinamizzato dalle formiche pensose che percorrono la via; primo piano in movimento di un passante che saluta guardando in macchina; sampietrini, nuvole sporche, sonoro confuso, ma ben distribuito. Il film funziona. Il treno viaggia.

Esempio 2. Davanti alla caffetteria. Ascolto il ragazzo senegalese parlare con me e Giovanna. Parla a lungo, spiega, chiarisce, cerca i termini giusti. La sua voce cammina su una strada dissestata, piena di buche e crepe. Racconta di un fratello che vive in un’altra città. Lascia il discorso sospeso, lo aggancia a un altro che riguarda la sua famiglia che sta in Africa. E poi il suo orgoglio che gli impedisce di tornare in Senegal senza essere riuscito a mettere da parte qualcosa. E la necessità di aspettare ancora, prima di costruire una nuova famiglia, aspettare una solidità e un’autonomia economica che – dice – sta per arrivare. Progetta. Concretamente. Non sogna, progetta. E si dilunga. Ora il racconto si è spostato sui suoi problemi di stomaco, descrive i sintomi di una gastrite misteriosa che non riesce a curarsi da un anno, e l’ostilità professionale di medici – i pronipoti del migliore Illuminismo europeo. Io mi distraggo. Zoomo sul dettaglio della sua barba scurissima, poco fitta. Poi sul bianco eccezionale della sclera e dei denti. Ma il ritmo narrativo non regge. Mi volto, come da bambino mi voltavo quando mio padre parlava a lungo coi colleghi di lavoro, in pretura. E cerco passanti, giro intorno lo sguardo, fotografo il cielo, la facciata della chiesa, il culo del bus che arriva in piazza. E poi torno a incrociare lo sguardo del ragazzo, annuisco per far capire che sono attento, presente, accogliente. Come facevo a scuola, durante la spiegazione di Chimica. Il film va avanti da tre quarti d’ora. Non so dove porta, non ricordo da dove è partito. Non ricordo le informazioni che mi sono arrivate. E non capisco quale siano utili, quali superflue. Non riconosco il genere. Poi il film finisce e il ragazzo ci stringe la mano. Io ricambio la stretta con energia, perché lui senta che ci sono – tanto la campana è suonata, e non c’è alcun rischio che l’insegnante mi rivolga qualche domanda e scopra quanti frammenti del suo racconto, quanti dettagli della sua vita sono stati inghiottiti dall’imbuto che porta all’oblio. All’inconscio. Si allontana. Giovanna entra in caffetteria, io resto fuori. Imbraccio di nuovo la mia videocamera invisibile e riprendo a raccogliere e mettere da parte i dettagli della città. E dopo qualche minuto, mi ritrovo a inquadrare la schiena del ragazzo che si muove lento, verso la piazza. Non stacco. Tengo l’inquadratura lunga su di lui. Lo vedo avvicinarsi a un tizio che cammina frettoloso, mostrargli i suoi libri, ma l’altro lo dribbla con sorriso ironico e strizzata d’occhio. Non stacco ancora, continuo a seguirlo. Lui resta sospeso, cammina ciondolante. Si fa più piccolo nell’inquadratura, mentre cerca qualcun altro a cui offrire i suoi libri, qualcun altro con cui tentare una transazione economica. Un gruppetto di tre studenti gli passa accanto, lui sorride, uno dei tre gli dà il cinque. E basta, non guadagna altro che quel battito di mano all’americana. Poi il gruppetto prosegue, e il ragazzo si trova di nuovo solo, si muove in modo irregolare sulla superficie di questo lago, di questo stagno di civiltà. Ed è sempre più piccolo nell’inquadratura, il campo è sempre più lungo. Sempre più figure si interpongono tra il mio occhio e la sua schiena, ma cerco di tenere a fuoco lui. E ancora si avvicina a un passante coi suoi libri, e anche stavolta non incassa altro che un sorriso e tre parole in fuga. L’inquadratura si è già fatta insopportabile, non riesco a sostenerla. Non riesco a digerire questo tempo dilatato, questi tre o quattro minuti di vita di un personaggio che passa da un rifiuto all’altro, che naviga senza remi, su una delle lance del Titanic, sospesa su un mare calmo e civile. Con il rischio costante di morire di ipotermia. E questo piano-sequenza va avanti da anni e proseguirà per altri anni ancora, finché forse il ragazzo non riuscirà a trovare stabilità e autonomia, e potrà avere una donna e una famiglia, e tornare in Africa senza vergogna – in vacanza, magari, o definitivamente. E sento il bisogno di Hollywood, del montaggio all’americana, rapido, levigato, ritmico, spettacolare: sento il bisogno pungente del selvaggio che compare solo per pochi secondi, in una sparatoria o in un’inquadratura descrittiva, per il tempo necessario a far proseguire il treno della narrazione. Il treno che macina chilometri e secoli di progresso, e che, coi suoi finestrini robusti e trasparenti, mi protegge dal malessere, dall’angoscia. Dalla profondità.
Una semplice dilatazione temporale, seppur breve, può permettere l’affiorare di verità che altrimenti restano nascoste, diceva Zavattini. Ci rifletto per alcuni secondi.
Poi Giovanna esce dalla caffetteria. Spengo la videocamera e mi allontano con lei. E il ragazzo esce fuori campo.


domenica 27 agosto 2017

Sto lavorando a un montaggio, da qualche tempo. Ripulisco il girato, eliminando gli errori, il superfluo, le eccedenze. Faticosamente: una sceneggiatura rigida provoca meno languore. Non riesco a riconoscerle, le eccedenze. Come stare sulla soglia di una città a cui abbiano abbattuto la cinta muraria, e non riuscire a riconoscere il punto esatto in cui ha inizio e fine la campagna. Non avere un’idea predefinita chiara, robusta, tagliente mi lascia troppa vaghezza. Convalescenza brilla: il barista mi guarda e io non so cosa ordinare.
C’è una scena che mi piace moltissimo. Notte. La videocamera è collocata qualche metro dietro l’auto, sul ciglio di una strada periferica, abbastanza trafficata. Attraverso il lunotto vedo lei, seduta accanto al conducente. Se ne coglie solo un accenno di profilo scuro. Oltre il parabrezza sporco gli occhi delle auto, bianchi o rossi. Lei parla. Parla, gesticola, sostiene la fronte con il braccio sinistro, ride, si sistema una ciocca. Parla rivolta a qualcuno fuori campo, oltre il taglio del quadro. Parla vivace. Ascolta, ogni tanto. E io so che parlava con me, che aveva il telefono in vivavoce, sul sedile di un conducente inesistente.
Ma ora non ricordo più. Non ci credo più. Con chi parla? A chi rivolge lo sguardo, il profilo? A chi regala le sue confidenze senza sonoro? La voce di chi ascolta? La voce di chi ascoltava?
Poi l’operatore mette a fuoco, zooma leggermente in avanti, assesta il taglio. C’è qualcuno che osserva. Qualcuno la cui tristezza si è solidificata, rappresa, e su quella base grigia di dolore antico ha edificato un linguaggio, un’arte, una professione, un’identità.
E io, dallo schermo, guardo questo professionista, questa concrezione di melanconia dimenticata, che osserva attraverso lenti e vetri una silhouette rivolta verso un altro. In una notte dissolta nel passato.
E poi mi arriva un video, su WhatsApp. Una ripresa casuale fatta durante un laboratorio di regia. Ancora notte. Macchina fissa su un locale con pareti trasparenti. Dentro, come in un acquario, c’è un uomo con due ragazze e una donna. Si muovono, organizzano la scena, vivacemente, percorrendo le traiettorie vitali di una coreografia involontaria. Si indovinano voci ritmiche, decise, colorate. Poi, dal bordo destro dell’inquadratura entra in campo un ragazzo. Lentamente si avvicina alla parete esterna del locale. Osserva il mondo che si agita nell’acquario. Appoggia una mano contro il vetro. Come guardasse con dolcezza la foto della scena primaria. Accaduta chissà quando, chissà dove. Al di là di una trasparenza impenetrabile e maledetta.
E anche questa volta l’operatore assesta la messa a fuoco. E io so che c’è qualcuno che spia questa disperazione, questa frattura incurabile, questo esilio senza grazia.
I meccanismi automatici della mia psiche mi spingono addosso al ragazzo, lo avvolgo, lo divoro, mi lascio assorbire da lui. E con lui sento l’eco lontanissima e irrisolvibile di un odio profondo per quel tizio che si muove nell’acquario. Un rancore oceanico, trattenuto, per la sua barba, i ricci, i gesti disonesti.

Intanto ascolto Nektaria Karantzi e Vassilis Tsabropoulos suonare musica bizantina. Voce senza luogo, imprigionata nella trasparenza di ogni vetro.

martedì 18 luglio 2017

Un gesto semplice, fotografato con inquadratura dall’alto. Lei in bagno, accanto alla tinozza, osservata con la curiosità silenziosa di un bambino che ha finito i compiti. E non sa che fare. Ho sempre amato questo disperato desiderio di acciuffare l’istante. Degas. Delicato, tenero innamoramento per l’altrove.
“Ecco come vorrei costruire le inquadrature”, le dico, al bar. E le mostro contento alcuni dipinti di più di un secolo fa. Coi colori falsati da internet e dallo schermo del mio telefono.
“Non li sopporto”, dice semplicemente. Non sopporta che in tutti i quadri il volto della donna sia sempre assente. Negato. Cancellato.
E la mia delicatezza, e quella di Degas, si spogliano, si dissolvono, si sgretolano, come maschere andate a male. E mi accorgo di quanto odio, quanta aggressività, violenza avvelenata e rancorosa ci siano in quel bambino che osserva la madre fare il bagno. In quell’amante che percorre distante la schiena di una donna che ha già tradito.

E sempre, ancora una volta, sento che l’obbiettivo teso della mia macchina, il pennello morbido di Degas, il volto trasparente del mio telefono rettangolare, hanno lo stesso odore d’osso dell’arma che ho raccolto qualche milione d’anni fa, per dilaniare la natura. La mia.

mercoledì 11 gennaio 2017


Montaggio discontinuo.
Alcuni mesi fa lavoravo a un video inutile. Senza utilità e senza intenzione chiara. Ho raccolto molto materiale: dettagli di oggetti, crepe, tronchi, visi, panchine, nuvole, fiocchi di neve, piedi, peli, aerei, gesti. Per alcuni giorni, attraverso il finestrino, sulla strada che mi portava in centro, mi ha colpito una siepe di foglie scarlatte. Si mescolava ad altre siepi con foglie di verde intenso, e al bianco dei germogli di un albero. Lì, sul marciapiede che corre accanto alla strada asfaltata. Questa composizione mi piaceva, come solo l’intensità della primavera può piacere e spaventare. Mi fermo, armato di videocamera, per uccidere finalmente questo piacere. Riprendo per una decina di minuti le foglie, i contrasti, la sinfonia di colori. Improvvisamente sento il rumore di un click fotografico. Esplicito e sfrontato. Dalla finestra di una casa lì vicino, un tizio, vestito con tuta color depressione, mi fotografa col suo tablet. Non si nasconde, anzi: l’esplicitezza del suo gesto e la sua espressione seria e tesa mi comunicano con chiarezza qualcosa. Sembra volermi dire che mi aspettava. Che gliel’avevano detto che sarei arrivato, che qualcuno sarebbe arrivato, prima o poi, armato e minaccioso. E lui non è affatto impreparato: sono anni che leviga la sua competenza, e ha imparato che al fuoco della videocamera altrui deve rispondere con il fuoco del suo tablet. E lo fa. Cinque o sei volte, guardandomi negli occhi come un eroe western che difende la sua famiglia. Riprendo a inquadrare le foglie. D’altro canto, perché prendermela? Il tizio ha ragione: io sono lì per fare del male. Solo che non ho intenzione di uccidere lui, ma i colori della primavera. E me stesso. Dopo pochi secondi, dal portone di casa sbuca fuori una donna. La moglie del pistolero, immagino. Si avvicina mordendomi col suo sorriso. Mi chiede cosa sto facendo e perché riprendo la sua siepe. Io cerco di camuffarmi dietro una maschera di innocua rispettabilità: mi piacevano i colori, non sono un giornalista, sono un insegnante, amo l’arte, abito qui vicino, complimenti per la siepe, e così via. Ma la signora va via delusa, frettolosamente. E scorgo dietro la finestra chiusa il marito che ci spia. Immagino che anche lui sarà deluso, quando sua moglie gli spiegherà che non sono io l’alieno che aspettavano. Magari avranno ricontrollato, interrogato la mia foto, e il mio fantasma gli avrà risposto di no. Non ancora.


Tempo fa parlavo con qualcuno. Un adulto. E si discuteva di giovani, di studenti, criticando la dipendenza dall’immagine e dai dispositivi che permettono loro di fotografarsi, ossessivamente, accumulando centinaia di selfie, di immagini di sé. Di rappresentazioni di sé. E poi, negli stessi giorni, mi trovo a coprire un collega assente in una prima. Sono tutte ragazze, una ventina. Sono inquiete come elettroni appena nati. A un certo momento, una di loro propone di realizzare un video con lo smartphone. Capisco che devono averlo già fatto altre volte, perché si muovono e si dispongono subito in una distribuzione coreografica. Parte una musica, e la ragazza armata di telefonino, camminando dalla porta alla cattedra, riprende lentamente, attentamente, le compagne immobili, immortalate in un gesto qualunque cristallizzato, come gli invitati dei primi minuti di Marienbad. La ripresa dura un minuto e mezzo circa. Le ragazze chiedono anche a me di restare immobile, di respirare il meno possibile. Ma il video non è venuto bene: qualcuna ha ceduto, un’altra ha contratto i muscoli del viso. E allora si riprova, e si riprova ancora. Per circa tre quarti d’ora, dieci, quindici volte le ragazze si posizionano come geroglifici in un museo, e la giovane compagna percorre questa foresta di statue adolescenti fissando tesa il suo telefonino. E ogni volta, quando le statue riprendono vita, ridono, respirano, la ragazza ricontrolla il video e dice di no. Non va bene. Non ancora.


Sono seduto a un tavolino di un bar, all’aperto. Pomeriggio inoltrato autunnale. Quasi sera. Uno dei tavoli è occupato da tre persone, un uomo e due donne. Chiacchierano. Li ascolto, anche se non riesco a decifrare tutti i suoni. Chiudo l’occhio sinistro e li inquadro col destro. Devo zoomare, perché sono distanti quattro o cinque metri da me. Nei loro discorsi si concentrano sulla bevanda che l’uomo ha ordinato e sta bevendo. Dev’essere qualcosa di insolito, perché una delle ragazze, quella che sta di fronte a lui, fa domande, ride, è incuriosita. Poi il tipo le offre la tazza, per assaggiare. Lei beve. Mi pare le piaccia. L’uomo la offre anche all’altra, quella che sta alla sua sinistra (il tavolino è quadrato). Ma lei, alzando il volume della voce, risponde prontamente di no. Non vuole assaggiare. Non vuole toccare la tazza. Io spengo la mia videocamera invisibile e smetto di guardarli, con un po’ di tristezza. E mi viene in mente un sogno, o un ricordo opaco, lontano, difficile da collocare. Una stanza molto piccola, piacevolmente disordinata. Una cucina. Il duro di un divano improbabile che mi sostiene. Al tavolo, a mezzo metro da me, la ragazza sta mangiando uno yogurt. Bellissima. Mi dice che è molto buono. Mi chiede di assaggiarlo. Io allungo la mano per afferrare il suo cucchiaino, ma lei tira indietro la sua. “Aspetta. Te ne prendo un altro. Uno pulito”.
E scivolo ancora, in uno dei primi ricordi che ho. Del ‘79 o ‘80, credo, tenendo conto della casa. Sono per terra, in corridoio, vicino alla porta d’ingresso. Sto giocando, forse, non ricordo bene. Improvvisamente mi accorgo del mobile con specchio che si trova a un metro scarso, alla mia destra. Realizzo l’intenzione di specchiarmi. E allora, lentamente, gattono lateralmente, finchè, sulla superficie lucida dello specchio verticale, non compare la faccia di un bambino con capelli spettinati ed espressione perplessa, delusa. Disincantata. Che mi dice di no.
No, non tu, mi dice. Non qui. Non adesso. Non ancora. Non più.
Non io.

mercoledì 9 marzo 2016


“Perché avete tutti così tanta paura della videocamera? Siete attori…”
L’attrice di teatro: “Perché non ti risponde. È lì, ferma, ti punta con la sua luce rossa. Col suo occhio. Col pubblico è diverso. C’è uno scambio, ti coinvolge, è un rapporto vivo! La videocamera no. È ferma, meccanica, sembra morta… Eppure sai che sta registrando tutto, tutto quello che dici, gli errori”.

“Alle volte mi fermo a osservarvi, e rifletto sullo strano rapporto che ho con le compagnie teatrali, quando mi capita di dover filmare l’allestimento di rappresentazioni, come in questo caso. Mi colpisce, mi incuriosice questa vostra condivisione del tempo, anche fuori dal palco. I mesi che trascorrete insieme, come una famiglia, come un unico organismo che respira, che si agita internamente, confligge, armonizza. Il mio lavoro è molto diverso. C’è una cosa che mi è capitata molto spesso, durante la lavorazione di documentari. Faccio riprese, accumulo materiale. Poi inizia il montaggio. E per giorni, settimane, vedo quotidianamente un viso nello schermo, nel mio studio, in casa mia. Al mattino, di sera. Di notte. Ne osservo le espressioni, il taglio migliore, il modo di ridere. Cerco di inserirlo nel video che sto montando, con coerenza. Mi abituo alla sua presenza. Diventa familiare il modo di guardare, di ascoltare l’interlocutore, il cambio repentino dalla serietà all’allegria. I particolari del volto, delle mani, la pettinatura. Il modo di stare seduto o seduta. Alcuni gesti furtivi, fuggitivi.
Poi, casualmente, improvvisamente, mi capita di incontrare lo stesso viso, vivo, per strada, fuori dallo schermo, fuori dal mio studio, e avverto una strana familiarità, una confidenza immediata. E il viso non mi riconosce nemmeno. Mi guarda per un attimo, mi sente estraneo, e prosegue”.
L’attore di teatro: “Come un innamorato non corrisposto”.
“Sì. Forse”.

Mentre lavorava alla sua tesi, Giovanna mi ha ricordato quella favola di Esopo, che leggevo da piccolo, sul libro di lettura delle scuole elementari. Il leone, ormai anziano e stanco, non è più in grado di cacciare. Lavora d’astuzia, allora: invita gli altri animali nella sua grotta, e, quando sono lì, li divora. Solo la volpe riesce a sottrarsi alla fame del vecchio leone: trovando solo orme di animali che entrano nella tana, ma nessuna che ne esce, decide di restare al di qua della soglia. E così si salva. Non so più chi abbia proposto un’interpretazione della favola un po’ diversa da quella classica, quella che concludeva la pagina del mio libro di lettura, elogiando l’intelligenza e l’accortezza della volpe, che sa conservare la propria incolumità dalla minaccia del mostro. Sì, è vero, tutti gli altri animali hanno perso se stessi, scomparendo nel buio della grotta e nelle grandi fauci del leone. La volpe no. La volpe è più astuta del vecchio felino. Tiene sotto controllo le tracce, le sa intepretare, sa prevedere il rischio. Così si mantiene integra, non perde il controllo, non si lascia assorbire dal mistero. E conserva la propria individualità. E con questa preziosa ricchezza può continuare a muoversi, e vagare, viaggiare da un bosco all’altro, da una comunità all’altra. Liberamente. Sempre sveglia. Sempre cosciente.

venerdì 1 gennaio 2016


Una persiana aperta, di notte, e fuori la via lunga e stretta. In basso l’acqua. Non c’è l’asfalto o il grigio ottuso del marciapiede, ma acqua. Come nel finale di un film, o in un sogno. Le case, gli edifici poggiano sull’acqua. Lanciando uno sguardo svelto, in fuga, oltre la finestra, vedo il movimento continuo di questo fondo liquido, precario, da cui tutto emerge. Come un monito. Come un tizio che ti sorveglia davanti al portone. L’eleganza di una città costruita sulla paura, sulla fuga da un aggressore. L’origine e il destino di questo sistema architettonico è così evidente, la sua grazia, le delicate composizioni si arrampicano dall’impalpabile, e lentamente sprofondano nell’impalpabile. Dovrei fare foto in formato verticale, allungate, per catturare queste strane lacrime nere che scendono giù dalle finestre, questa corrosione. Per catturare le rughe di questa donna straordinariamente attraente, soprattutto se sorpresa in pigiama, spettinata, struccata. Di malumore.
E scatto foto. Centinaia. Assillato dalla maledizione della libertà digitale. Provo ad appropriarmi di tutto. Correggo la mia posizione, inclino leggermente il corpo, premo tre o quattro volte il pulsante. Ogni volta sento che sto per afferrare, acchiappare la perfezione. Che sarà l’ultima foto, quella definitiva. Come guardarsi continuamente allo specchio, con chissà quali silenziose aspettative. Con chissà quali ambizioni. E ogni volta il riflesso risponde “Non ancora”. Non qui. Non ora. Non tu.
Al di là del vetro, nella hall di un albergo, vedo una ragazza orientale, seduta, con lo sguardo rivolto in basso. Legge qualcosa, una guida, forse. La luce del locale è rossa, e le taglia il viso senza troppo contrasto. Ho già fotografato un bel po’ di visi dell’Estremo Oriente, qui; ce ne sono tanti. Ma mi convinco che questo sia quello a cui non posso rinunciare. Comincio a litigare con la vergogna, con l’imbarazzo, con la paura di essere visto. Con il terrore che la ragazza sollevi gli occhi e guardi in macchina. E mi interpelli. E giro su me stesso, arretro di qualche passo, poi avanzo, provo a travestirmi da fotografo spensierato, disinvolto, gioioso. Non riesco. Non è vero. Giovanna e Lorenzo si sono fermati una decina di metri più avanti, mi aspettano. Io mi comporto come se dovessi abbandonare tutto per questo profilo immerso nella luce rossa. Ma anche come un innamorato goffo e inesperto che non sa dichiararsi. Goffo, ridicolo. E colpevole. Che ha paura che il riflesso gli risponda di no. Non ora. Non tu.
Rinuncio alla foto.
Qualche giorno fa, durante un pranzo, un’amica mi dice di soffrire di diplopia. Mi spiega che vede gli oggetti doppi. La conosco da anni, ma non lo sapevo. Resto molto sorpreso. Le chiedo di farmi un esempio. Lei si volta, mi indica il cameriere che si trova a una decina di metri, e mi spiega che ne vede due. Le chiedo “Ma quindi, ogni volta che ci incontriamo tu vedi arrivare due me, non uno…”. Mi risponde di sì. Immediatamente, con stupida sincerità, domando: “E come fai a capire qual è quello vero?”. Sorride.