Qualche
tempo fa ho lavorato a un video che mi piaceva poco. Il tizio che me l’ha
commissionato ha obiettivi, gusti, visioni del mondo diversi dai miei. Il
lavoro è comunque finito. Abbiamo trovato un compromesso, un punto d’equilibrio
che ha scontentato entrambi. Ma non così tanto da far saltare la lavorazione.
Dopo la consegna del video, un giorno lui mi dice che vorrebbe correggere la
voce di un personaggio, un uomo di mezza età presente in una sola scena, sempre
fuori campo. L’uomo parla con i due figli con il tono correttivo
dell’allenatore in campo, che commenta, aggiusta, chiarisce, sprona. Quei padri
che ti danno suggerimenti anche su come sognare la notte. Il mio cliente si
lamentava che la voce di questo personaggio fosse troppo accentata, si risconosceva
troppo facilmente la provenienza dell’attore. Preferiva trovare qualcuno che
potesse sembrare appartenente a nessun luogo e a nessun tempo. Un desiderio molto
diffuso, in questo tempo e in questo luogo.
Con la
mia falsa buona educazione nichilista lo lascio fare. Si occupa di tutto lui:
reperimento del doppiatore, registrazione della voce. Mi invia tutto. Il
doppiaggio è terribile. Il personaggio si è trasformato: il padre verboso,
invadente, ma in fondo simpatico, è ora un sadico ufficiale dei marines,
saltato fuori da qualche film di terza mano, diretto negli anni ’80 da Ronald
Reagan in persona. Un tipo paterno come una ghigliottina. Con improvvisi picchi
del volume sonoro, tipici del militare o del prete frustrato sessualmente.
Sono
tentato di farglielo rifare. Poi lascio perdere, come un reporter che filma un episodio
sanguinoso di una guerra civile.
Ma in
fondo, penso, non è accaduto niente di strano. La visione del mondo del mio
cliente è questa. Il film che ha scritto e che dirige, quotidianamente e
inconsapevolmente, è fatto di questi (pochi) personaggi. Il cinema industriale
funziona così: poche figure semplici e molto caratterizzate. Non si può
pretendere da uno sceneggiatore per multisala di avere nel suo immaginario un ampio
ventaglio di personaggi, ricchi di sfumature, complessi. Contraddittori, anche.
Come inserire in un film industriale un padre simpatico ma soffocante,
onnipresente ma innocuo, terribile ma dolcissimo? Nel supermercato presso cui
si serve lo sceneggiatore, è disponibile solo una figura che ha nel suo
repertorio l’esercizio del controllo censorio sul proprio figlio, ed è il
prete-militare: ascoltando la sua voce fuori campo io immagino automaticamente
che abbia gli occhiali, detesti il rock e i cheesburger, sia un fanatico
esecutore delle leggi statali, scopi poco, vesta con colori freddi, abbia la
carnagione chiara, il fisico poco robusto, i capelli corti, gli occhi piccoli e
lo sguardo fisso. Nessuna scoperta. Nessun imprevisto.
Anni fa
ho visto la versione cinematografica de L’insostenibile
leggerezza dell’essere. Un romanzo molto bello. Con personaggi molto belli.
Il film rivela la povertà, la ristrettezza dell’orizzonte dello sceneggiatore e
del regista che hanno dato volto, corpo, espressioni alle figure di Kundera. E ciò
è avvenuto secondo la legge della banalizzazione adoperata dal cinema
industriale. Una donna come Sabina, che fa l’amore con Tomas, senza che i due siano
una coppia; e che desidera anche Tereza, senza essere una lesbica dichiarata,
non può essere interpretata in altro modo che come ninfomane, e a ogni
inquadratura il regista indugia sul suo sorriso lascivo e sul suo sguardo
voglioso. Tomas, il quarantenne sempre altrove, il Don Giovanni disperato che
non sopporta che una donna con cui ha trascorso la notte lo senta lavarsi i
denti al mattino; ecco, quest’uomo senza spiaggia e senza foce, solo per il
fatto di aver avuto circa 200 donne, sullo schermo si trasforma in un maniaco
sessuale, con gli occhi sbarrati di chi spia una quindicenne spogliarsi alla finestra
di fronte.
Ciascuno
di noi guarda una scena. Io guardo, vedo una scena. Non so quando e non so
dove. Mi si presenta davanti agli occhi il fermo-immagine di una scena,
pensata, voluta, scritta e diretta da me. Io sono uno dei personaggi della
scena. E quando esco di casa, l’impressione della scena, la disposizione dei
personaggi, il significato delle loro, delle nostre pose mi accompagna a lungo. Come il riverbero nelle palpebre
chiuse, dopo aver fissato una fonte di luce. A lungo. Forse per sempre. E non
vedo altro che i miei personaggi, le dinamiche che li legano, i conflitti, i
falsi movimenti, i falsi cambiamenti. La scena mi difende. E mi distrugge. Mi
nutre e soffoca. E ne ho bisogno. E la ripropongo a ogni istante. E la riscrivo
ogni giorno, per evitare che si usuri, che i personaggi sbiadiscano. E
sostituisco gli attori che invecchiano, perché i mutamenti del loro corpo, le
rughe, il respiro più affannoso, il bianco dei capelli, la gestualità
imprevista non corrompano i personaggi, non si smarchino dal personaggio, e
l’attore scarti di lato. E la scena crolli. E il palco crolli.
Così
riesco a mantenere congelato il fermo-immagine. Lucido, levigato, eterno. Senza
tempo, grazie al tempo.
Un
regista che ama più i suoi personaggi che gli attori che li interpretano va
abbandonato.