tag:blogger.com,1999:blog-13115689350481923512024-02-21T03:05:49.761+01:00profondità di campoAnonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.comBlogger22125tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-37808134340127839872018-08-14T08:58:00.002+02:002018-08-14T09:02:11.165+02:00<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Qualche
tempo fa ho lavorato a un video che mi piaceva poco. Il tizio che me l’ha
commissionato ha obiettivi, gusti, visioni del mondo diversi dai miei. Il
lavoro è comunque finito. Abbiamo trovato un compromesso, un punto d’equilibrio
che ha scontentato entrambi. Ma non così tanto da far saltare la lavorazione.
Dopo la consegna del video, un giorno lui mi dice che vorrebbe correggere la
voce di un personaggio, un uomo di mezza età presente in una sola scena, sempre
fuori campo. L’uomo parla con i due figli con il tono correttivo
dell’allenatore in campo, che commenta, aggiusta, chiarisce, sprona. Quei padri
che ti danno suggerimenti anche su come sognare la notte. Il mio cliente si
lamentava che la voce di questo personaggio fosse troppo accentata, si risconosceva
troppo facilmente la provenienza dell’attore. Preferiva trovare qualcuno che
potesse sembrare appartenente a nessun luogo e a nessun tempo. Un desiderio molto
diffuso, in questo tempo e in questo luogo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Con la
mia falsa buona educazione nichilista lo lascio fare. Si occupa di tutto lui:
reperimento del doppiatore, registrazione della voce. Mi invia tutto. Il
doppiaggio è terribile. Il personaggio si è trasformato: il padre verboso,
invadente, ma in fondo simpatico, è ora un sadico ufficiale dei marines,
saltato fuori da qualche film di terza mano, diretto negli anni ’80 da Ronald
Reagan in persona. Un tipo paterno come una ghigliottina. Con improvvisi picchi
del volume sonoro, tipici del militare o del prete frustrato sessualmente.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Sono
tentato di farglielo rifare. Poi lascio perdere, come un reporter che filma un episodio
sanguinoso di una guerra civile.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Ma in
fondo, penso, non è accaduto niente di strano. La visione del mondo del mio
cliente è questa. Il film che ha scritto e che dirige, quotidianamente e
inconsapevolmente, è fatto di questi (pochi) personaggi. Il cinema industriale
funziona così: poche figure semplici e molto caratterizzate. Non si può
pretendere da uno sceneggiatore per multisala di avere nel suo immaginario un ampio
ventaglio di personaggi, ricchi di sfumature, complessi. Contraddittori, anche.
Come inserire in un film industriale un padre simpatico ma soffocante,
onnipresente ma innocuo, terribile ma dolcissimo? Nel supermercato presso cui
si serve lo sceneggiatore, è disponibile solo una figura che ha nel suo
repertorio l’esercizio del controllo censorio sul proprio figlio, ed è il
prete-militare: ascoltando la sua voce fuori campo io immagino automaticamente
che abbia gli occhiali, detesti il rock e i cheesburger, sia un fanatico
esecutore delle leggi statali, scopi poco, vesta con colori freddi, abbia la
carnagione chiara, il fisico poco robusto, i capelli corti, gli occhi piccoli e
lo sguardo fisso. Nessuna scoperta. Nessun imprevisto.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Anni fa
ho visto la versione cinematografica de <i style="mso-bidi-font-style: normal;">L’insostenibile
leggerezza dell’essere</i>. Un romanzo molto bello. Con personaggi molto belli.
Il film rivela la povertà, la ristrettezza dell’orizzonte dello sceneggiatore e
del regista che hanno dato volto, corpo, espressioni alle figure di Kundera. E ciò
è avvenuto secondo la legge della banalizzazione adoperata dal cinema
industriale. Una donna come Sabina, che fa l’amore con Tomas, senza che i due siano
una coppia; e che desidera anche Tereza, senza essere una lesbica dichiarata,
non può essere interpretata in altro modo che come ninfomane, e a ogni
inquadratura il regista indugia sul suo sorriso lascivo e sul suo sguardo
voglioso. Tomas, il quarantenne sempre altrove, il Don Giovanni disperato che
non sopporta che una donna con cui ha trascorso la notte lo senta lavarsi i
denti al mattino; ecco, quest’uomo senza spiaggia e senza foce, solo per il
fatto di aver avuto circa 200 donne, sullo schermo si trasforma in un maniaco
sessuale, con gli occhi sbarrati di chi spia una quindicenne spogliarsi alla finestra
di fronte.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Ciascuno
di noi guarda una scena. Io guardo, vedo una scena. Non so quando e non so
dove. Mi si presenta davanti agli occhi il fermo-immagine di una scena,
pensata, voluta, scritta e diretta da me. Io sono uno dei personaggi della
scena. E quando esco di casa, l’impressione della scena, la disposizione dei
personaggi, il significato delle loro, delle <i style="mso-bidi-font-style: normal;">nostre</i> pose mi accompagna a lungo. Come il riverbero nelle palpebre
chiuse, dopo aver fissato una fonte di luce. A lungo. Forse per sempre. E non
vedo altro che i miei personaggi, le dinamiche che li legano, i conflitti, i
falsi movimenti, i falsi cambiamenti. La scena mi difende. E mi distrugge. Mi
nutre e soffoca. E ne ho bisogno. E la ripropongo a ogni istante. E la riscrivo
ogni giorno, per evitare che si usuri, che i personaggi sbiadiscano. E
sostituisco gli attori che invecchiano, perché i mutamenti del loro corpo, le
rughe, il respiro più affannoso, il bianco dei capelli, la gestualità
imprevista non corrompano i personaggi, non si smarchino dal personaggio, e
l’attore scarti di lato. E la scena crolli. E il palco crolli.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Così
riesco a mantenere congelato il fermo-immagine. Lucido, levigato, eterno. Senza
tempo, grazie al tempo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
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<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Un
regista che ama più i suoi personaggi che gli attori che li interpretano va
abbandonato.<o:p></o:p></span></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-89407231416260999662018-03-04T23:18:00.002+01:002018-03-05T15:04:09.843+01:00<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: 'lucida grande'; font-size: 13pt; line-height: 150%;">Esempio
1. Il percorso dall’auto parcheggiata fino alla piazza dura circa otto minuti.
Un cortometraggio. Una narrazione che si dispiega come una lunga soggettiva
fluida, ruffiana. E il regista fa pulsare il racconto, alterna piani più ampi a
dettagli riflessivi. L’espressione intontita e meravigliata di un anziano fuori
dal bar. La schiena rossa lontana di una ragazza che si sporge dal parapetto di
una terrazza mistica. La strada lunga, irregolare, e le formiche fantasma che
la percorrono ordinate, pensose. Un ragazzo africano mi taglia la strada, mi
sorride. Come fosse amicizia. E invece è una transazione commerciale: dopo una
ventina di secondi lui va via con due euro, io con la conferma di appartenere
alla categoria degli europei generosi. L’incontro è durato il tempo necessario.
Come un’inquadratura di un </span><i style="font-family: 'lucida grande'; font-size: 13pt; line-height: 150%;">western</i><span style="font-family: 'lucida grande'; font-size: 13pt; line-height: 150%;"> di
Ford. Come lo sguardo sul deserto nord-americano o su un gruppetto di Apache
pennuti. Il ritmo della narrazione prosegue fluido, vivace, armonico, coerente:
i selvaggi di Ford hanno assolto la loro funzione e scompaiono, divorati dalla
grande catena di montaggio dello sviluppo drammatico del film. Il ragazzo
africano ha assolto la sua funzione di breve pausa nel mio percorso lineare
fino alla piazza. Una digressione nella narrazione. Digressione solo apparente,
però, se serve a definire la fisionomia caratteriale del protagonista: civile,
disinvolto, disponibile a rallentare la marcia. Nell’economia del
cortometraggio questo calo di ritmo è necessario, come in una sinfonia – una
composizione di immagini orchestrata con mestiere dal regista e dal montatore:
dettaglio sul viso dell’anziano davanti al bar; campo lungo con ragazza lontana
di schiena; breve dialogo affettuoso e aperto con il ragazzo di colore; campo
lungo, dinamizzato dalle formiche pensose che percorrono la via; primo piano in
movimento di un passante che saluta guardando in macchina; sampietrini, nuvole
sporche, sonoro confuso, ma ben distribuito. Il film funziona. Il treno
viaggia.</span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Esempio
2. Davanti alla caffetteria. Ascolto il ragazzo senegalese parlare con me e
Giovanna. Parla a lungo, spiega, chiarisce, cerca i termini giusti. La sua voce
cammina su una strada dissestata, piena di buche e crepe. Racconta di un
fratello che vive in un’altra città. Lascia il discorso sospeso, lo aggancia a
un altro che riguarda la sua famiglia che sta in Africa. E poi il suo orgoglio
che gli impedisce di tornare in Senegal senza essere riuscito a mettere da
parte qualcosa. E la necessità di aspettare ancora, prima di costruire una
nuova famiglia, aspettare una solidità e un’autonomia economica che – dice –
sta per arrivare. Progetta. Concretamente. Non sogna, progetta. E si dilunga.
Ora il racconto si è spostato sui suoi problemi di stomaco, descrive i sintomi
di una gastrite misteriosa che non riesce a curarsi da un anno, e l’ostilità
professionale di medici – i pronipoti del migliore Illuminismo europeo. Io mi
distraggo. Zoomo sul dettaglio della sua barba scurissima, poco fitta. Poi sul
bianco eccezionale della sclera e dei denti. Ma il ritmo narrativo non regge.
Mi volto, come da bambino mi voltavo quando mio padre parlava a lungo coi
colleghi di lavoro, in pretura. E cerco passanti, giro intorno lo sguardo,
fotografo il cielo, la facciata della chiesa, il culo del bus che arriva in
piazza. E poi torno a incrociare lo sguardo del ragazzo, annuisco per far
capire che sono attento, presente, accogliente. Come facevo a scuola, durante
la spiegazione di Chimica. Il film va avanti da tre quarti d’ora. Non so dove
porta, non ricordo da dove è partito. Non ricordo le informazioni che mi sono
arrivate. E non capisco quale siano utili, quali superflue. Non riconosco il
genere. Poi il film finisce e il ragazzo ci stringe la mano. Io ricambio la
stretta con energia, perché lui senta che ci sono – tanto la campana è suonata,
e non c’è alcun rischio che l’insegnante mi rivolga qualche domanda e scopra
quanti frammenti del suo racconto, quanti dettagli della sua vita sono stati
inghiottiti dall’imbuto che porta all’oblio. All’inconscio. Si allontana.
Giovanna entra in caffetteria, io resto fuori. Imbraccio di nuovo la mia videocamera
invisibile e riprendo a raccogliere e mettere da parte i dettagli della città. E
dopo qualche minuto, mi ritrovo a inquadrare la schiena del ragazzo che si
muove lento, verso la piazza. Non stacco. Tengo l’inquadratura lunga su di lui.
Lo vedo avvicinarsi a un tizio che cammina frettoloso, mostrargli i suoi libri,
ma l’altro lo dribbla con sorriso ironico e strizzata d’occhio. Non stacco
ancora, continuo a seguirlo. Lui resta sospeso, cammina ciondolante. Si fa più
piccolo nell’inquadratura, mentre cerca qualcun altro a cui offrire i suoi
libri, qualcun altro con cui tentare una transazione economica. Un gruppetto di
tre studenti gli passa accanto, lui sorride, uno dei tre gli dà il cinque. E
basta, non guadagna altro che quel battito di mano all’americana. Poi il
gruppetto prosegue, e il ragazzo si trova di nuovo solo, si muove in modo
irregolare sulla superficie di questo lago, di questo stagno di civiltà. Ed è
sempre più piccolo nell’inquadratura, il campo è sempre più lungo. Sempre più
figure si interpongono tra il mio occhio e la sua schiena, ma cerco di tenere a
fuoco lui. E ancora si avvicina a un passante coi suoi libri, e anche stavolta non
incassa altro che un sorriso e tre parole in fuga. L’inquadratura si è già
fatta insopportabile, non riesco a sostenerla. Non riesco a digerire questo
tempo dilatato, questi tre o quattro minuti di vita di un personaggio che passa
da un rifiuto all’altro, che naviga senza remi, su una delle lance del Titanic,
sospesa su un mare calmo e civile. Con il rischio costante di morire di
ipotermia. E questo piano-sequenza va avanti da anni e proseguirà per altri
anni ancora, finché forse il ragazzo non riuscirà a trovare stabilità e
autonomia, e potrà avere una donna e una famiglia, e tornare in Africa senza
vergogna – in vacanza, magari, o definitivamente. E sento il bisogno di
Hollywood, del montaggio all’americana, rapido, levigato, ritmico,
spettacolare: sento il bisogno pungente del selvaggio che compare solo per
pochi secondi, in una sparatoria o in un’inquadratura descrittiva, per il tempo
necessario a far proseguire il treno della narrazione. Il treno che macina chilometri
e secoli di progresso, e che, coi suoi finestrini robusti e trasparenti, mi
protegge dal malessere, dall’angoscia. Dalla profondità.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Una
semplice dilatazione temporale, seppur breve, può permettere l’affiorare di
verità che altrimenti restano nascoste, diceva Zavattini. Ci rifletto per
alcuni secondi.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Poi
Giovanna esce dalla caffetteria. Spengo la videocamera e mi allontano con lei.
E il ragazzo esce fuori campo. <o:p></o:p></span></div>
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<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-87150358693979404222017-08-27T14:12:00.000+02:002017-08-27T14:12:02.731+02:00<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Sto
lavorando a un montaggio, da qualche tempo. Ripulisco il girato, eliminando gli
errori, il superfluo, le eccedenze. Faticosamente: una sceneggiatura rigida provoca
meno languore. Non riesco a riconoscerle, le eccedenze. Come stare sulla soglia
di una città a cui abbiano abbattuto la cinta muraria, e non riuscire a
riconoscere il punto esatto in cui ha inizio e fine la campagna. Non avere
un’idea predefinita chiara, robusta, tagliente mi lascia troppa vaghezza.
Convalescenza brilla: il barista mi guarda e io non so cosa ordinare.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">C’è una
scena che mi piace moltissimo. Notte. La videocamera è collocata qualche metro
dietro l’auto, sul ciglio di una strada periferica, abbastanza trafficata.
Attraverso il lunotto vedo lei, seduta accanto al conducente. Se ne coglie solo
un accenno di profilo scuro. Oltre il parabrezza sporco gli occhi delle auto,
bianchi o rossi. Lei parla. Parla, gesticola, sostiene la fronte con il braccio
sinistro, ride, si sistema una ciocca. Parla rivolta a qualcuno fuori campo,
oltre il taglio del quadro. Parla vivace. Ascolta, ogni tanto. E io so che
parlava con me, che aveva il telefono in vivavoce, sul sedile di un conducente
inesistente.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Ma ora
non ricordo più. Non ci credo più. Con chi parla? A chi rivolge lo sguardo, il
profilo? A chi regala le sue confidenze senza sonoro? La voce di chi ascolta?
La voce di chi ascoltava?<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Poi
l’operatore mette a fuoco, zooma leggermente in avanti, assesta il taglio. C’è
qualcuno che osserva. Qualcuno la cui tristezza si è solidificata, rappresa, e
su quella base grigia di dolore antico ha edificato un linguaggio, un’arte, una
professione, un’identità.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">E io,
dallo schermo, guardo questo professionista, questa concrezione di melanconia
dimenticata, che osserva attraverso lenti e vetri una silhouette rivolta verso
un altro. In una notte dissolta nel passato.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">E poi mi
arriva un video, su WhatsApp. Una ripresa casuale fatta durante un laboratorio
di regia. Ancora notte. Macchina fissa su un locale con pareti trasparenti.
Dentro, come in un acquario, c’è un uomo con due ragazze e una donna. Si
muovono, organizzano la scena, vivacemente, percorrendo le traiettorie vitali
di una coreografia involontaria. Si indovinano voci ritmiche, decise, colorate.
Poi, dal bordo destro dell’inquadratura entra in campo un ragazzo. Lentamente
si avvicina alla parete esterna del locale. Osserva il mondo che si agita
nell’acquario. Appoggia una mano contro il vetro. Come guardasse con dolcezza
la foto della scena primaria. Accaduta chissà quando, chissà dove. Al di là di
una trasparenza impenetrabile e maledetta.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">E anche
questa volta l’operatore assesta la messa a fuoco. E io so che c’è qualcuno che
spia questa disperazione, questa frattura incurabile, questo esilio senza
grazia.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">I
meccanismi automatici della mia psiche mi spingono addosso al ragazzo, lo
avvolgo, lo divoro, mi lascio assorbire da lui. E con lui sento l’eco
lontanissima e irrisolvibile di un odio profondo per quel tizio che si muove
nell’acquario. Un rancore oceanico, trattenuto, per la sua barba, i ricci, i
gesti disonesti.<o:p></o:p></span></div>
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<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Intanto
ascolto Nektaria Karantzi e Vassilis Tsabropoulos suonare musica bizantina.
Voce senza luogo, imprigionata nella trasparenza di ogni vetro.<o:p></o:p></span></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-20050086891050638712017-07-18T16:24:00.002+02:002017-07-18T16:26:42.158+02:00<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Un gesto
semplice, fotografato con inquadratura dall’alto. Lei in bagno, accanto alla
tinozza, osservata con la curiosità silenziosa di un bambino che ha finito i
compiti. E non sa che fare. Ho sempre amato questo disperato desiderio di
acciuffare l’istante. Degas. Delicato, tenero innamoramento per l’altrove.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">“Ecco
come vorrei costruire le inquadrature”, le dico, al bar. E le mostro contento alcuni
dipinti di più di un secolo fa. Coi colori falsati da internet e dallo schermo
del mio telefono.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">“Non li
sopporto”, dice semplicemente. Non sopporta che in tutti i quadri il volto
della donna sia sempre assente. Negato. Cancellato.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">E la mia
delicatezza, e quella di Degas, si spogliano, si dissolvono, si sgretolano,
come maschere andate a male. E mi accorgo di quanto odio, quanta aggressività,
violenza avvelenata e rancorosa ci siano in quel bambino che osserva la madre
fare il bagno. In quell’amante che percorre distante la schiena di una donna
che ha già tradito.<o:p></o:p></span></div>
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<!--EndFragment--><br />
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">E sempre,
ancora una volta, sento che l’obbiettivo teso della mia macchina, il
pennello morbido di Degas, il volto trasparente del mio telefono rettangolare, hanno
lo stesso odore d’osso dell’arma che ho raccolto qualche milione d’anni fa, per
dilaniare la natura. La mia.<o:p></o:p></span></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-73310733098053638802017-01-11T17:35:00.001+01:002017-01-12T09:50:00.638+01:00<!--StartFragment-->
<br />
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Montaggio
discontinuo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Alcuni
mesi fa lavoravo a un video inutile. Senza utilità e senza intenzione chiara.
Ho raccolto molto materiale: dettagli di oggetti, crepe, tronchi, visi,
panchine, nuvole, fiocchi di neve, piedi, peli, aerei, gesti. Per alcuni giorni,
attraverso il finestrino, sulla strada che mi portava in centro, mi ha colpito
una siepe di foglie scarlatte. Si mescolava ad altre siepi con foglie di verde
intenso, e al bianco dei germogli di un albero. Lì, sul marciapiede che corre
accanto alla strada asfaltata. Questa composizione mi piaceva, come solo
l’intensità della primavera può piacere e spaventare. Mi fermo, armato di
videocamera, per uccidere finalmente questo piacere. Riprendo per una decina di
minuti le foglie, i contrasti, la sinfonia di colori. Improvvisamente sento il
rumore di un click fotografico. Esplicito e sfrontato. Dalla finestra di una
casa lì vicino, un tizio, vestito con tuta color depressione, mi fotografa col
suo tablet. Non si nasconde, anzi: l’esplicitezza del suo gesto e la sua
espressione seria e tesa mi comunicano con chiarezza qualcosa. Sembra volermi
dire che mi aspettava. Che gliel’avevano detto che sarei arrivato, che qualcuno
sarebbe arrivato, prima o poi, armato e minaccioso. E lui non è affatto
impreparato: sono anni che leviga la sua competenza, e ha imparato che al fuoco
della videocamera altrui deve rispondere con il fuoco del suo tablet. E lo fa.
Cinque o sei volte, guardandomi negli occhi come un eroe western che difende la
sua famiglia. Riprendo a inquadrare le foglie. D’altro canto, perché
prendermela? Il tizio ha ragione: io sono lì per fare del male. Solo che non ho
intenzione di uccidere lui, ma i colori della primavera. E me stesso. Dopo pochi
secondi, dal portone di casa sbuca fuori una donna. La moglie del pistolero,
immagino. Si avvicina mordendomi col suo sorriso. Mi chiede cosa sto facendo e
perché riprendo la sua siepe. Io cerco di camuffarmi dietro una maschera di
innocua rispettabilità: mi piacevano i colori, non sono un
giornalista, sono un insegnante, amo l’arte, abito qui vicino, complimenti per
la siepe, e così via. Ma la signora va via delusa, frettolosamente. E scorgo
dietro la finestra chiusa il marito che ci spia. Immagino che anche lui sarà
deluso, quando sua moglie gli spiegherà che non sono io l’alieno che
aspettavano. Magari avranno ricontrollato, interrogato la mia foto, e il mio
fantasma gli avrà risposto di no. Non ancora.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Tempo fa
parlavo con qualcuno. Un adulto. E si discuteva di giovani, di studenti,
criticando la dipendenza dall’immagine e dai dispositivi che permettono loro di
fotografarsi, ossessivamente, accumulando centinaia di selfie, di immagini di
sé. Di rappresentazioni di sé. E poi, negli stessi giorni, mi trovo a coprire
un collega assente in una prima. Sono tutte ragazze, una ventina. Sono inquiete
come elettroni appena nati. A un certo momento, una di loro propone di
realizzare un video con lo smartphone<i style="mso-bidi-font-style: normal;">.</i>
Capisco che devono averlo già fatto altre volte, perché si muovono e si
dispongono subito in una distribuzione coreografica. Parte una musica, e la
ragazza armata di telefonino, camminando dalla porta alla cattedra, riprende
lentamente, attentamente, le compagne immobili, immortalate in un gesto
qualunque cristallizzato, come gli invitati dei primi minuti di <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Marienbad</i>. La ripresa dura un minuto e
mezzo circa. Le ragazze chiedono anche a me di restare immobile, di respirare
il meno possibile. Ma il video non è venuto bene: qualcuna ha ceduto, un’altra
ha contratto i muscoli del viso. E allora si riprova, e si riprova ancora. Per
circa tre quarti d’ora, dieci, quindici volte le ragazze si posizionano come
geroglifici in un museo, e la giovane compagna percorre questa foresta di
statue adolescenti fissando tesa il suo telefonino. E ogni volta, quando le
statue riprendono vita, ridono, respirano, la ragazza ricontrolla il video e
dice di no. Non va bene. Non ancora.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Sono
seduto a un tavolino di un bar, all’aperto. Pomeriggio inoltrato autunnale.
Quasi sera. Uno dei tavoli è occupato da tre persone, un uomo e due donne.
Chiacchierano. Li ascolto, anche se non riesco a decifrare tutti i suoni.
Chiudo l’occhio sinistro e li inquadro col destro. Devo zoomare, perché sono
distanti quattro o cinque metri da me. Nei loro discorsi si concentrano sulla
bevanda che l’uomo ha ordinato e sta bevendo. Dev’essere qualcosa di insolito,
perché una delle ragazze, quella che sta di fronte a lui, fa domande, ride, è
incuriosita. Poi il tipo le offre la tazza, per assaggiare. Lei beve. Mi pare
le piaccia. L’uomo la offre anche all’altra, quella che sta alla sua sinistra
(il tavolino è quadrato). Ma lei, alzando il volume della voce, risponde
prontamente di no. Non vuole assaggiare. Non vuole toccare la tazza. Io spengo
la mia videocamera invisibile e smetto di guardarli, con un po’ di tristezza. E
mi viene in mente un sogno, o un ricordo opaco, lontano, difficile da collocare. Una stanza
molto piccola, piacevolmente disordinata. Una cucina. Il duro di un divano
improbabile che mi sostiene. Al tavolo, a mezzo metro da me, la ragazza sta
mangiando uno yogurt. Bellissima. Mi dice che è molto buono. Mi chiede di assaggiarlo. Io
allungo la mano per afferrare il suo cucchiaino, ma lei tira indietro la sua.
“Aspetta. Te ne prendo un altro. Uno pulito”.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">E scivolo ancora, in uno dei primi ricordi che ho. Del ‘79 o ‘80,
credo, tenendo conto della casa. Sono per terra, in corridoio, vicino alla
porta d’ingresso. Sto giocando, forse, non ricordo bene. Improvvisamente mi
accorgo del mobile con specchio che si trova a un metro scarso, alla mia
destra. Realizzo l’intenzione di specchiarmi. E allora, lentamente, gattono lateralmente, finchè, sulla superficie lucida dello specchio verticale, non
compare la faccia di un bambino con capelli spettinati ed espressione
perplessa, delusa. Disincantata. Che mi dice di no.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">No, non tu, mi dice. Non qui. Non adesso. Non ancora. Non più.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Non io.<o:p></o:p></span></div>
<!--EndFragment-->
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-54485692699901709092016-03-09T00:10:00.002+01:002016-03-09T00:10:11.511+01:00<!--StartFragment-->
<br />
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">“Perché
avete tutti così tanta paura della videocamera? Siete attori…”<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">L’attrice
di teatro: “Perché non ti risponde. È lì, ferma, ti punta con la sua luce
rossa. Col suo occhio. Col pubblico è diverso. C’è uno scambio, ti coinvolge, è
un rapporto vivo! La videocamera no. È ferma, meccanica, sembra morta… Eppure
sai che sta registrando tutto, tutto quello che dici, gli errori”.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">“Alle
volte mi fermo a osservarvi, e rifletto sullo strano rapporto che ho con le
compagnie teatrali, quando mi capita di dover filmare l’allestimento di
rappresentazioni, come in questo caso. Mi colpisce, mi incuriosice questa
vostra condivisione del tempo, anche fuori dal palco. I mesi che trascorrete
insieme, come una famiglia, come un unico organismo che respira, che si agita
internamente, confligge, armonizza. Il mio lavoro è molto diverso. C’è una cosa
che mi è capitata molto spesso, durante la lavorazione di documentari. Faccio
riprese, accumulo materiale. Poi inizia il montaggio. E per giorni, settimane,
vedo quotidianamente un viso nello schermo, nel mio studio, in casa mia. Al
mattino, di sera. Di notte. Ne osservo le espressioni, il taglio migliore, il
modo di ridere. Cerco di inserirlo nel video che sto montando, con coerenza. Mi
abituo alla sua presenza. Diventa familiare il modo di guardare, di ascoltare l’interlocutore,
il cambio repentino dalla serietà all’allegria. I particolari del volto, delle
mani, la pettinatura. Il modo di stare seduto o seduta. Alcuni gesti furtivi,
fuggitivi.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Poi,
casualmente, improvvisamente, mi capita di incontrare lo stesso viso, vivo, per
strada, fuori dallo schermo, fuori dal mio studio, e avverto una strana
familiarità, una confidenza immediata. E il viso non mi riconosce nemmeno. Mi
guarda per un attimo, mi sente estraneo, e prosegue”.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">L’attore
di teatro: “Come un innamorato non corrisposto”.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">“Sì.
Forse”.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Mentre
lavorava alla sua tesi, Giovanna mi ha ricordato quella favola di Esopo, che
leggevo da piccolo, sul libro di lettura delle scuole elementari. Il leone,
ormai anziano e stanco, non è più in grado di cacciare. Lavora d’astuzia,
allora: invita gli altri animali nella sua grotta, e, quando sono lì, li
divora. Solo la volpe riesce a sottrarsi alla fame del vecchio leone: trovando
solo orme di animali che entrano nella tana, ma nessuna che ne esce, decide di
restare al di qua della soglia. E così si salva. Non so più chi abbia proposto
un’interpretazione della favola un po’ diversa da quella classica, quella che
concludeva la pagina del mio libro di lettura, elogiando l’intelligenza e
l’accortezza della volpe, che sa conservare la propria incolumità dalla minaccia
del mostro. Sì, è vero, tutti gli altri animali hanno perso se stessi,
scomparendo nel buio della grotta e nelle grandi fauci del leone. La volpe no.
La volpe è più astuta del vecchio felino. Tiene sotto controllo le tracce, le
sa intepretare, sa prevedere il rischio. Così si mantiene integra, non perde il
controllo, non si lascia assorbire dal mistero. E conserva la propria
individualità. E con questa preziosa ricchezza può continuare a muoversi, e
vagare, viaggiare da un bosco all’altro, da una comunità all’altra. Liberamente.
Sempre sveglia. Sempre cosciente.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<!--EndFragment-->
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-27267121890374749242016-01-01T15:06:00.001+01:002016-01-01T15:06:29.788+01:00<!--StartFragment-->
<br />
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Una
persiana aperta, di notte, e fuori la via lunga e stretta. In basso l’acqua.
Non c’è l’asfalto o il grigio ottuso del marciapiede, ma acqua. Come nel finale
di un film, o in un sogno. Le case, gli edifici poggiano sull’acqua. Lanciando
uno sguardo svelto, in fuga, oltre la finestra, vedo il movimento continuo di
questo fondo liquido, precario, da cui tutto emerge. Come un monito. Come un
tizio che ti sorveglia davanti al portone. L’eleganza di una città costruita
sulla paura, sulla fuga da un aggressore. L’origine e il destino di questo
sistema architettonico è così evidente, la sua grazia, le delicate composizioni
si arrampicano dall’impalpabile, e lentamente sprofondano nell’impalpabile.
Dovrei fare foto in formato verticale, allungate, per catturare queste strane
lacrime nere che scendono giù dalle finestre, questa corrosione. Per catturare
le rughe di questa donna straordinariamente attraente, soprattutto se sorpresa
in pigiama, spettinata, struccata. Di malumore.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">E scatto
foto. Centinaia. Assillato dalla maledizione della libertà digitale. Provo ad
appropriarmi di tutto. Correggo la mia posizione, inclino leggermente il corpo,
premo tre o quattro volte il pulsante. Ogni volta sento che sto per afferrare,
acchiappare la perfezione. Che sarà l’ultima foto, quella definitiva. Come
guardarsi continuamente allo specchio, con chissà quali silenziose aspettative.
Con chissà quali ambizioni. E ogni volta il riflesso risponde “Non ancora”. Non
qui. Non ora. Non tu.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Al di là
del vetro, nella hall di un albergo, vedo una ragazza orientale, seduta, con lo
sguardo rivolto in basso. Legge qualcosa, una guida, forse. La luce del locale
è rossa, e le taglia il viso senza troppo contrasto. Ho già fotografato un bel
po’ di visi dell’Estremo Oriente, qui; ce ne sono tanti. Ma mi convinco che
questo sia quello a cui non posso rinunciare. Comincio a litigare con la vergogna,
con l’imbarazzo, con la paura di essere visto. Con il terrore che la ragazza
sollevi gli occhi e guardi in macchina. E mi interpelli. E giro su me stesso,
arretro di qualche passo, poi avanzo, provo a travestirmi da fotografo
spensierato, disinvolto, gioioso. Non riesco. Non è vero. Giovanna e Lorenzo si
sono fermati una decina di metri più avanti, mi aspettano. Io mi comporto come
se dovessi abbandonare tutto per questo profilo immerso nella luce rossa. Ma
anche come un innamorato goffo e inesperto che non sa dichiararsi. Goffo,
ridicolo. E colpevole. Che ha paura che il riflesso gli risponda di no. Non ora.
Non tu.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Rinuncio
alla foto.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Qualche
giorno fa, durante un pranzo, un’amica mi dice di soffrire di diplopia. Mi
spiega che vede gli oggetti doppi. La conosco da anni, ma non lo sapevo. Resto
molto sorpreso. Le chiedo di farmi un esempio. Lei si volta, mi indica il
cameriere che si trova a una decina di metri, e mi spiega che ne vede due. Le
chiedo “Ma quindi, ogni volta che ci incontriamo tu vedi arrivare due me, non
uno…”. Mi risponde di sì. Immediatamente, con stupida sincerità, domando: “E
come fai a capire qual è quello vero?”. Sorride.<o:p></o:p></span></div>
<!--EndFragment-->
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-13416935763411340502015-10-04T09:53:00.001+02:002015-11-29T19:28:46.661+01:00<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">I ragazzi
di quarta criticano Platone. Qualcuno mi dice che è “tutto fumo”. Probabilmente
il mio odio per la sua filosofia ultraterrena trapela, mentre lo spiego.
L’insufficienza delle prove dell’immortalità dell’anima, il disprezzo per il
cavallo nero. Socrate che manda via sua moglie, perché il suo pianto e la sua
disperazione gli impediscono di morire in equilibrio. L’omaggio reso ad
Asclepio, perché guarisce dalla malattia della vita. Racconto ai ragazzi la
leggenda di Kleombrotos, che si getta dalle mura della città, dalle mura della
vita, dopo aver letto Platone, felice di abbandonare il corpo. Verso la
certezza immutabile dell’idea. E mentre continuo a spiegare non nascondo più il
mio dissenso, l’impossibilità di sopportare il suono di una maledizione antica
lanciata sull’Occidente.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Ho due
ore di buco, prima di un’altra lezione. Vado verso il mare, non so perché.
Giornata di autunno precoce, piovosa, cupa. C’è molto vento. Mi fermo davanti
al parapetto, un paio di metri al di sopra del livello del mare. Grigio,
tormentato, violento. Sembra che sia stato appena versato. Sembra che
l’inconscio abbia violato le pareti del torace, del cranio. Frastuono. Lo
guardo sotto di me. E comincio a immaginare come inquadrarlo. Come inquadrare
quelle poche figure che camminano sul lungomare semideserto. Anche loro un po’
stupiti, come fosse appena inziato lo spettacolo del mondo. Penso che potrei
riprenderli da lontano, magari con un tele. Schiacciare quel ciclista anziano,
spettinato, contro lo sfondo del mare che ruggisce. E immaginare una storia, un
racconto, un motivo per cui il personaggio debba fermarsi qui, davanti a
quest’acqua, per qualche minuto. Tristemente. Come in attesa. Come abbandonato.
Mi accorgo che anch’io mi posiziono in modo innaturale, badando al rapporto
geometrico tra la mia figura e lo sfondo. Badando all’illuminazione diffusa, a
come il grigio dell’autunno può togliere vivacità al colore della mia giacca.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Mi stufo
di questo spettacolo, di queste immagini scontate. Entro nel bar. Dal vetro del
locale si vedono ancora i cavalloni rimescolarsi e divorarsi l’un l’altro. Ma
la radio accesa manda una musica che copre il rombo dell’acqua, una musica
senza toni gravi, chiacchiericcio ritmato e appiccicoso. È strana la dissonanza
tra questo sonoro e l’immagine di là dal vetro. Mi ricorda un film di De Oliveira.
Poi, improvvisamente, parte una canzone vecchia di una ventina d’anni. Una di
quelle che tormentavano le estati di inizio anni ’90. E parla del mare, di lui che
parte in moto, convinto di trovare lei. E poi arriva sul molo, ma lei non c’è.
E allora la voce si chiede “Cosa sono venuto a fare?”. Tristemente.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Mi stufo
anche di ascoltare le crisi lontane di Luca Carboni, e apro il libro. Provo a
passeggiare un po’ con Volponi, con i suoi personaggi. Guido e Letizia sulla
spiaggia di Pesaro. Il loro dialogo, i loro impermeabili discreti, il loro
provare a sfiorarsi, e poi evitarsi, girare lo sguardo altrove, dire l’opposto
di quello che pensano. Dire quello che non sentono. Non dire quello che
sentono. E camminare sul bordo del mare, sul limite di questo frastuono
invadente, che corteggia la roccia da milioni di anni, a ogni secondo. E non
smette mai. E non la conquista mai. Come l’amplesso del primo episodio di <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Al di là delle nuvole</i>, con gli amanti
che tracciano l’uno il contorno dell’altra, ma senza mai toccarsi, senza mai
mescolarsi. Nella nebbia di Ferrara. E Ines Sastre che non si toglie nemmeno le
mutande.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">È lì che
fiorisce l’arte? In questa tristezza compiaciuta? In questa cintura di castità
sollevata tra la città e il mare? Coltiviamo fiori nello spazio tra un
sampietrino e l’altro. Nell’abisso che si apre tra due materassi a una piazza.
Sul bordo della vita. È possibile pensare un’arte diversa? Girare un film che
non affondi le radici nella rinuncia, nella censura, nel desiderio di
abbandono, nel piacere dell’abbandono? Nel desiderio di un mondo ideale che non
deve mai piovere a terra? Se dopo qualche istante si fosse avvicinata la moglie
del ciclista spettinato, lui le avesse sorriso e fossero andati via insieme,
probabilmente avrei buttato via il personaggio. Sarebbe sfiorito il mio
interesse.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Vorrei
tanto incontrare Platone. E strangolarlo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Uno dei
tanti frammenti di pellicola. Un uomo al volante di un’auto guida, su una
strada cittadina. La strada curva lievemente verso sinistra. I finestrini sono
abbassati a metà. Il tipo guarda avanti. La videocamera potrebbe essere
collocata sul sedile posteriore, e vedere il mondo che viene incontro, dal
parabrezza, e una porzione del braccio e della mano del conducente. Sulla
sinistra, sul bordo del marciapiede, si ferma una donna, probabilmente deve
attraversare la strada. Vestita di verde e bordeaux. Qualcosa di esotico.
Qualcosa di molto familiare. Inquadrata a spalla dal finestrino sinistro. La
figura è tagliata a metà dal bordo superiore del vetro. Primo piano del
conducente. Mantiene lo sguardo fisso in avanti, per evitare l’incrocio. Per
evitare lo sguardo. La figura della donna scorre all’indietro, lungo il
parabrezza, i finestrini, il lunotto. Inquadrata a spalla dal sedile
posteriore. Come seguita dallo sguardo di un bambino portato in macchina dai
genitori. Senza capire perché. E senza capire per dove.<o:p></o:p></span></div>
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<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "lucida grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Forse non
è Platone che va strangolato.<o:p></o:p></span></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-88445341452650124422015-08-29T17:55:00.001+02:002015-08-29T17:55:09.863+02:00<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Pomeriggio
di tarda estate. La macchina ferma sul ciglio della strada. Dal finestrino
aperto vedo la sua figura femminile, di schiena, che scarica una busta nel
secchione giallo della plastica. Tra il secchione e il legno del palo della
luce ci sarà un metro circa. E lì, in quell’intervallo stretto, si muove una
figura. Piccola, lontana, vestita di rosso. È una donna che sta lavorando la
terra, piegata su un campo arato color aridità. Dietro di lei, ancora più
distante dal mio finestrino, un trattore fa manovre che non riesco a decifrare.
C’è un po’ di vento che riempie l’immagine. Penso che potrei lavorare su questa
inquadratura fissa, giocare con la profondità di campo, col contrasto tra la
figura giovane, contemporanea, in primo piano, e quelle lontane, rurali, che
sembrano il riverbero della memoria collettiva. Memoria trascorsa, ma solo in
apparenza. Immagino di accentuare il contrasto tra i vari piani narrativi. Lei
potrebbe voltarsi e avere tratti più accentuatamente moderni, potrebbe
controllare lo smartphone o avere una pettinatura particolare, eccentrica.
Creare un conflitto, un conflitto interno alla memoria.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Ma subito
immagino di zoomare sullo sfondo, sulla donna e sul trattore, mettendo in
risalto il dettaglio; ingrandirlo, dargli importanza, permettendogli di
conquistare una porzione molto più ampia dello schermo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Ma no!
Non è così che si lavora con la profondità! Non dovrei zoomare… Le figure della
memoria devono restare sullo sfondo, piccole, marginali. È lo sguardo che deve
sorprenderle, come un significato remoto. Riconoscerne il valore nascosto
dietro la piccolezza, la contingenza passeggera, inutile.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Il
problema è che non mi fido dello sguardo. Non riesco più a fidarmi.
Immediatamente penso che una inquadratura del genere, prolungata, magari anche
ben costruita, sarebbe comunque inefficace, non acchiapperebbe l’attenzione
degli interlocutori. Annoierebbe. Ci vorrebbero ampi schermi spalancati nel
buio di una sala cinematografica, mentre adesso la gran parte dei film o video
si guardano su superfici piccole, in stanze illuminate e distratte.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Io stesso
mi sento distratto. E quest’immagine mi regala un gusto troppo rapido e
passeggero, con un lungo retrogusto amaro.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Sembra
davvero che il tragico, la bellezza del tragico, la profondità del tragico che
tuona dal sottosuolo sia scomparsa dallo schermo. Dalle immagini. Non riesco a
indovinarla dietro al costume. Non riesco a spogliarla. Come accade nei sogni,
nebbiosi, noiosi, insensati; piatti riflessi della quotidianità, fantasmi
esangui. E poi li spogli, scavi nelle figure che emergono dal sonno, e ti
accorgi di quanta polpa, quanto succo c’è. E mostri e demoni e archetipi. E
madri, omicidi, stupri e orrore. E desiderio terribile.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Ma è
troppo faticoso solo il pensare di sollevarmi da questo torpore, temperare la punta
dello sguardo e bucare le ombre che mi danzano davanti, affacciarmi
sull’universo che si apre dietro il sipario, cercare il punto di fuga verso cui
tutti i fantasmi tendono.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">La scena
madre è stata cancellata. Il duello, l’omicidio. L’urlo catartico del totem
sgozzato, il fragore del corpo fatto a pezzi e divorato non li sento più. Il
film è costruito sull’attesa di un incontro, uno scontro, una lotta feroce che
non si verifica mai. Un appuntamento perennemente rinviato, il corteggiamento telefonico
tra il Bianconiglio e un fantasma. Baci e amplessi virtuali.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">L’ultima
scena di <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Cashè</i>, di Haneke.
Inquadratura fissa sull’ingresso della scuola. Lunga inquadratura. La gente si
muove. Genitori, ragazzi, automobili. E l’occhio della cinepresa insiste,
ossessivo, martellante. Quante volte ho visto questa scena. E solo dopo molte
volte mi sono accorto che lì, in basso a sinistra, avviene un incontro
importante tra due personaggi del film. Un evento che dà alla narrazione un
significato nuovo, inatteso. Aperto. Eppure era lì, e non l’ho mai visto. L’occhio
era completamente aperto e non ho visto nulla. Come lo sguardo vitreo di un
cieco. Come una colpa dimenticata. Come un desiderio rimosso.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Qualcuno incontra
lungo la strada un uomo addormentato a cui una serpe è entrata in gola. E il
suo morso può trasformare il sonno profondo in morte. “Mordi!”, gli urla,
perché l’uomo si svegli e stacchi la testa della serpe. E rida, come nessuno
mai è stato udito ridere.<o:p></o:p></span></div>
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<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Speriamo
che il sonno non sia già troppo profondo. E che l’uomo senta l’urlo.<o:p></o:p></span></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-5044267954933720142015-07-01T19:07:00.003+02:002015-10-04T10:00:55.885+02:00<!--StartFragment-->
<br />
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Di
mercoledì, le riprese di una breve sequenza di un videoclip. In uno studio
fotografico. Passiamo tutto il giorno a comporre inquadrature, a cercare di
imitare, riprodurre, citare programmi televisivi morti da cinquant’anni.
L’atmosfera è simpatica, vitale. I musicisti professionali. Le coriste muovono
gli occhi, a volte inquiete, a volte confidenziali. Prima di sera abbiamo
concluso il lavoro, e credo sia venuto bene. Facciamo foto, a gruppi, come a
scuola, dopo gli esami di maturità, quando pensi che finalmente anche
l’amicizia stia maturando, e invece è lì per dileguarsi. Quando rientro a casa,
mi metto a scorrere le riprese, provo a deformare l’immagine, a correggere i
colori. Sono soddisfatto. Abbastanza. Intanto il gruppo su WhatsApp si riempie
delle foto scattate qualche ora prima. Tutte immagini divertenti. Molte possibili
locandine, copertine, fermoimmagine di presentazione. E mi accorgo che io non
ci sono mai. Sono dietro la macchina fotografica, o dietro la videocamera.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Al
mattino, di giovedì, trovo un’immagine che qualcuno di loro mi ha inviato con
un messaggio privato. Finalmente una foto dove ci sono anch’io. Finalmente. Si
vede il cantante, al centro del quadro, la scenografia bianca e luminosa
intorno a lui, un pezzo di strumento, sulla destra, e una porzione del mio
braccio, a ridosso del bordo sinistro dell’inquadratura. Niente di più. Questo
è il grado più alto di presenza del corpo. Un trancio di braccio. Il resto si
indovina. Il resto del corpo è fuori campo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Qualche
tempo fa chiacchieravo con qualcuno che ragionava sulle tracce che la nostra
civiltà lascerà nel tempo. Su quanto di noi resterà, di qui a mille, cinquemila
anni. Gli uomini che costruivano le Piramidi, involontariamente mostravano la
propria presenza e i propri bisogni anche a me. Dialogavano con me, in uno
spazio lontano. E in un tempo lontano. Centinaia di migliaia di giorni lontano.
Questo testo che sto scrivendo adesso si dissolverà molto prima. Nella mia
scrittura di oggi si legge l'ansia di tenermi distante dalla materia. E
questa distanza, questa volontà di fuga è desiderio di scomparire presto. Non
lasciare tracce. Come la donna di Dreyer che cerca con lo sguardo l’assente.
Imprigionata da falsi muri bianchi e anoressici. Come quello scrittore, immerso
nella propria angoscia, che sognava la felicità di ricevere una busta da lettera,
da cui zampillava una fontana di fogli e frasi d’amore scritti dalla sua donna.
Un orgasmo di carta, in differita. Rappresentato. Allontanato. Rinviato. E solo
sognato, per di più.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Strade strette,
di notte. Dettaglio dello schermo di un cellulare. Le lettere luminose di un
sms. “Apri, ché faccio fatica a bussare alle porte chiuse”. Soggettiva di
qualcuno che si avvicina alla porta di una casa, al piano terra. La porta è
aperta. C’è una donna seduta a un tavolo. Sorride. Totale della stanza. L’uomo
si siede sul bracciolo del divano. Lei guarda il suo telefono, appoggiato lì
vicino. “Ah, mi avevi inviato un sms? Non lo avevo letto”. Primo piano di un
bambino di pochi anni, con un grembiulino azzurrino. Guarda in macchina
interrogativo, stupito, spaventato. “Ci sono anch’io nelle foto?”. Primissimo
piano della donna. Riempie tutto lo schermo. Sorride, e il sorriso deborda
dalla prigione dell’inquadratura. “Perché me lo chiedi? Non vuoi esserci. </span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 17px; line-height: 25px;">Non vuoi
esserci?”</span></div>
<!--EndFragment-->
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-71037084703328873362015-04-23T18:31:00.002+02:002015-04-24T09:12:46.303+02:00<!--StartFragment-->
<br />
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Qualche
giorno fa ho presentato <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Zabriskie Point</i>,
durante una delle serate del laboratorio. Difficile trovare un’unica chiave
d’accesso per le tante porte di un film. Di un film così bello. Ne ho
selezionate alcune, alcuni percorsi per cercare di entrare, di decifrare la
silenziosa forza comunicativa dell’immagine. Uno di questi è il pulsare delle
inquadrature. L’incontro tra lo sguardo e il luogo si esprime in una continua,
potente variazione delle proporzioni e delle dimensioni. Mark e Daria sono in
primo piano, riempiono una porzione molto estesa dello schermo. Lo sfondo dei
calanchi cerebrali è schiacciato contro di loro. Enorme. Sfocato. Poco dopo i
due sono piccolissimi, minuscoli punti scuri che si muovono appena in una
regione decentrata dell’inquadratura. Insetti giocosi in un orizzonte
sterminato, antichissimo, consapevole. Le dimensioni cambiano improvvisamente.
Scaraventati nell’incommensurabile, nello sproporzionato. I personaggi, noi
spettatori, il regista, l’operatore. Così accade nel deserto di <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Professione: Reporter</i>. Così sull’isola
di Lisca Bianca. O nel parco di Londra. Difficile, inusuale guardare così
lontano. In quante occasioni mi capita di dover guardare così lontano? Di dover
guardare lo smisurato? Qui in Europa è raro, forse.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Devo fare
un breve montaggio audio. Musica dissonante di Helmut Lachenmann a cui
sovrappongo il discorso di Hitler, all’indomani del successo elettorale del ’33.
Giovanna mi chiede di selezionare i momenti del discorso in cui la voce è più
aggressiva, più rauca, più minacciosa. Importo il file audio sul programma di
montaggio. Mi appare il diagramma del segnale sonoro. Cerco i picchi più
elevati, quelli in cui l’intensità dell’emissione sonora è più alta. Non li
trovo. Non ci sono picchi. Hitler parla sempre con lo stesso tono di voce.
Minaccioso, rauco, aggressivo. E sempre più o meno con lo stesso volume. Taglio
a caso. Monto gli estratti l’uno dopo l’altro, inserisco dissolvenze discrete
sui tagli di montaggio. Non si nota più nulla, sembra un discorso unico, continuo,
senza interruzioni. La sua voce non pulsa, non ha cadute di tono. Non ci sono
momenti di riflessione, o parentesi di maggiore confidenza. Crescendo, climax,
arresti. Niente, è tutto uguale. E la cosa più terribile è che questo è un
grandissimo vantaggio per me. Me la sbrigo in due minuti. Il discorso di Hitler
è costruito secondo l’estetica della prevedibilità assoluta. Non respira, non
c’è l’alternarsi di vuoto e pieno. Non c’è sproporzione.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Qualche
anno fa sono arrivato in una città straniera, e ho aspettato a lungo il proprietario
dell’alloggio prenotato per telefono. Il quartiere era poco accogliente,
inquieto. O forse lo eravamo noi che aspettavamo sotto la pioggia. Una normalissima
pioggia che sembrava pioggia straniera. Finalmente arriva. La prima cosa che mi
colpisce è che non ha i denti. Avrà quarant’anni e non ha più di un paio di
denti in bocca. E la mia inquietudine aumenta. E l’estetica hitleriana in cui
affondano le mie radici mi fa dubitare della sua credibilità. Tutti i miei
pensieri, le riflessioni, le argomentazioni sono solo schiuma leggera,
impotente di fronte all’oceano di abitudini e all’educazione forzata che ha
modellato il mio occhio. Il mio modo di guardare. Le “libere” associazioni
mentali. Ho con me la videocamera e gliela punto contro come un’arma da difesa.
Lui si imbarazza. Sorride.</span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'Lucida Grande'; font-size: large;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: 17px; line-height: 25px;">
<!--StartFragment--><span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; mso-ansi-language: IT; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: Times; mso-fareast-language: IT;">È possibile imparare a puntare l'occhio verso la mezzanotte di un'assenza? Senza voltare lo sguardo.</span><!--EndFragment--></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<!--EndFragment-->
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-73324593415023021592014-12-01T16:03:00.001+01:002014-12-01T16:03:19.023+01:00<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Autunno.
Nel rettangolo del computer ho decine di immagini da montare. Solo una
successione confusa, caotica di inquadrature. Senza senso. Senza direzione.
Inorganiche. Il senso, se c’era, è andato via, come i colori desaturati di
novembre. Come il cielo omogeneo alla finestra, che mi ricorda l’impersonalità
spaventosa della costa occidentale inglese.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">È
terribile questa impossibilità a trovare un contatto, iniettare la vita in una
serie di fotogrammi meccanici, astratti, slegati, estranei. E farne corpo vivo,
farne una sequenza, vedere germogliare una musica, un ritmo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Voglio
fuggire, distrarmi, voltare lo sguardo di fronte ai pezzi mal composti di
questo mostro di Frankenstein esanime. Non riesco a stare sulla sedia. Come di
fronte al silenzio di cemento di un telefono che non squilla, di una lettera
che non arriva. Ineluttabile e regolare come il corvo di Poe. Fuga, fuga.
Qualsiasi luogo è meglio che stare qui. Andare a bere un bicchier d’acqua,
prepararmi un tè, controllare la posta, guardare fuori dalla finestra. Gettarmi
giù dalla finestra.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">No. Devo
restare.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Non provo
mai a restare, a sopportare la pressione soffocante di questo campo magnetico,
di questa assenza, di questo dio decapitato, in decomposizione. E provare e
riprovare a montare, accostare le immagini l’una all’altra, aspettando un
motivo, aspettando che la mano del mostro si muova, aspettando che la fiamma
ingiallisca da sola, senza che io continui a buttare carta nel camino. Provare
a tenere in bocca il veleno. Provare a ingoiare.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Sì. Prima
o poi una direzione arriverà. Prima o poi troverò un senso. Riconoscerò la complessità
bella e variopinta di questo cielo grigio. E gli dirò di sì. E le dirò di sì. Come
uno sposo ubriaco.<o:p></o:p></span></div>
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<!--EndFragment--><br />
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%;">Ma per
ora, mentre aspetto, com’è dolce abbandonarsi alla melodia maledetta e seducente che
mi invita a spegnermi.<o:p></o:p></span></div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-57520770086314711122014-08-08T09:45:00.001+02:002014-08-08T18:46:30.366+02:00<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Nei Quartieri Spagnoli di Napoli. Il pullulare di una
vegetazione tropicale, il sottobosco incontrollato d’Europa. Inconscio.
Inconsapevole. Non è cresciuto nelle zone periferiche, ma nel cuore della
città, a pochi passi dai mattoni regolari dei palazzi signorili. Li attraverso.
Ne attraverso la confidenza. Un po’ Roma, un po’ Palermo, Maghreb, Sarajevo,
Tor S. Lorenzo. Ma il volto appuntito e legnoso di questi personaggi ha
qualcosa di diverso dalla spocchia romana. Non c’è il dominio, l’abitudine a
comandare. C’è qualcosa di familiare e diffidente nella loro postura, nella
velocità degli occhi. C’è la consuetudine a muoversi a margine, di aggirare lo
stato. “Una sacca impermeabile al progresso”, la chiamava Pasolini. Al solito
provo vergogna a fotografarli, a catturare i contrasti, le mura scorticate, i
rigagnoli d’acqua tra i sampietrini, la foto ritoccata di un ragazzo morto
chissà come e chissà quando.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Una ragazza molto bella, bruna, in attesa, davanti a un portone,
fuma, con il corpo che disegna un arco teso, una minaccia sensuale. Si accorge
che la osservo e non mi ricambia lo sguardo, come volesse mandarmi a fare in
culo. Mi sento un po’ poliziotto, un po’ esattore delle tasse. In cima ad un
vicolo stretto, confuso, umido punto il cellulare per fermare un’immagine.
Cerco di fare in fretta per acchiappare il bambino in quella posizione
plastica, vicino al muro poroso, con in mano una strana croce di ferro
arrugginito. Scatto due o tre volte. Poi lo sento urlare “Grazie!”. Mentre mi
passa accanto gli dico “Ma perché, ti eri messo in posa?”. Mi risponde di sì.
Bravo. Bello schiaffo alla mia estraneità, alla non-appartenenza. Non c’è
niente da fare: ti illudi di essere sceso all’inferno armato del falcetto tagliente
della macchina da presa, ma lo schermo è troppo spesso. E anche un bambino ti
riconosce. Come quando, da piccolo, vivevo in Calabria, a poche centinaia di
metri dalle case popolari, con le porte sempre aperte, e i ragazzini con la
pianta dei piedi nera, accovacciati per terra. Se attraversavo quelle strade, o
se parlavo, si capiva immediatamente che non ero di là, che venivo da fuori,
che non ero uno di loro. E io stesso parlavo ascoltandomi la voce, dubitando
del mio italiano sospetto, fuori luogo. Come fossi già al di qua di uno
schermo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Dalla casa in affitto, qui, vicino Sorrento, si vede il
piccolo golfo, e le imbarcazioni ancorate nel mare sereno, rasserenante. Non si
sentono rumori, fuorché il soffiare continuo di un vento mediterraneo. Alcune
barche a motore attraversano l’acqua, seguono percorsi regolari, geometrici. Si
incrociano coreografiche, con i loro movimenti indolori, silenziosi. Sembra di
osservare dall’alto il ricamo narrativo di una narrazione, la tessitura
astratta della vita. Senza coinvolgersi, senza toccare. Un’esistenza virtuale,
distante. Ideale. Cinematografica.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Al mare, su una bellissima, piccola spiaggia aperta tra gli
scogli. Bello distendersi sulla pelle salata di quest’acqua scura, tragica.
Mette appetito. Viene voglia di divorare i sassi e la parete rocciosa e la
sabbia impastata dalla mano delle onde. Mi metto a sedere su uno scoglio. Il
mare penetra ruggendo in una fenditura stretta, tra una pietra e l’altra. E si
lamenta, ringhia e schiuma. Non riesco a immaginare niente di più erotico di
quest’acqua feroce e ipnotica che abbraccia e modella la roccia. Ogni onda
l’aggredisce e poi la lascia andare. Studio le tracce di questo amore che va
avanti da millenni, le rughe degli scogli, i tagli verticali. Le riprese e gli
abbandoni.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Compare una signora con un costume intero. Avrà sessant’anni.
Si muove a fatica nell’acqua. Peserà novanta chili, almeno. Può essere tedesca
o napoletana, non lo so. Appoggia le pinne sul mio scoglio. Io la seguo con lo
sguardo. Muovo solo gli occhi, immobile e ostile come un Sioux. Non mi nota,
non si accorge nemmeno della mia presenza. Non mi vuole ignorare: semplicemente
non mi ha visto. Che bel regalo! Il colore della mia carnagione si è confuso
con quello della roccia chiara. Sono stato divorato dallo sfondo. Una volta
tanto posso immaginare di essere io il paesaggio, e non l’osservatore…<o:p></o:p></span></div>
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<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
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<br />
<div class="MsoBodyText">
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</div>
<div class="MsoBodyText" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Il cinema è violenza esercitata
sulla natura.</span></div>
<div class="MsoBodyText" style="text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Il cinema è innamoramento e volontà di possesso. Febbrile impazienza, sindrome da abbandono che toglie lucidità, che
dispera e non si accontenta che lei esista. Ma vuole imprigionarla. Vuole
immortalarne la bellezza, rinchiuderla nell’ottusa infanzia di un rettangolo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Chissà se è stato un Abilis o un Erectus o un Sapiens il primo a
trasformare il bastone in pennello. L’uccisione della preda moltiplicata
indefinitamente per mezzo dell’arte.<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>Senza sapere che la vita finiva lì, che dietro il desiderio di possesso
c’è la sospensione della vita, c’è lo sguardo alienato del medico di Ceylan che
osserva i bambini giocare attraverso la finestra.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Non è un caso che il cinema appena nato abbia filmato il
treno, il trionfo dell’uomo borghese sullo spazio-tempo, la strada ferrata e
artificiale che divora la natura. Che strangola la bellezza del viaggio, della
distrazione. Dal finestrino del treno tutto fluisce omogeneo, senza odore,
senza identità. Solo le sfumature estetizzanti della non-appartenenza. Solo il
gusto compiaciuto di un Don Giovanni che assapora mille aperitivi, senza mai
sedersi a tavola, senza mai compromettersi.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Sulla strada che taglia a metà il quartiere Ponte Armellina, a
Urbino, alle sette di sera. Estate. Profondità di campo narrativa: ci sono
almeno cinque piani compresenti, che interagiscono tra loro, in profondità. A
pochi metri dal mio occhio alcuni bambini, seduti sul marciapiede, disegnano.
Poco più avanti, altri si muovono in bicicletta. A metà della strada un uomo di
trent’anni circa, appoggiato al recinto di una casa, e ai suoi piedi suo figlio
di pochi anni, inginocchiato sull’asfalto. In lontananza, un gruppetto di
ragazzi chiacchiera intorno alla mia auto parcheggiata. In fondo, le
silhouettes di alcuni uomini e di una giovane donna con un passeggino. Cerco di
riprendere questo racconto che si dispiega in avanti, che approfondisce la
prospettiva. Un racconto che prolunga l’inquadratura, che le impedisce di
risolversi in quella successiva. Perché non c’è azione. È la sosta del treno. E
provo a fermarla, a catturarla, da buon borghese. Non mi riesce. Filmo molte
volte questa strada, senza riuscire ad acchiappare questa lontananza, e le
tante età dell’uomo che si distendono lungo la via.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">È un’immagine rara. Se mi fermo a osservare le vie lunghe e
affollate di una città qualsiasi, sia pure un piccolo paese di provincia,
raramente vedo gruppi fermi, adagiati nella vasca del tempo che passa
lentamente. In genere ci sono schiene che si allontanano e visi che s’ingrandiscono.
Tutti camminano.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Ne parlo con un amico. Mi cita un alcuni film degli ultimi
anni che hanno sequenze simili. Quei film che provano a riesumare il cadavere
del fantasma del Neorealismo. Dove anche lo sporco sulle gambe degli attori
recita male. Sì è vero, qualche somiglianza c’è. E questo significa forse che
il sistema si è appropriato di questa bellezza, e che il mio modo di guardare e
di innamorarmi, la mia meraviglia di fronte a quest’immagine è figlia del
sistema, è un fac-simile partorito da un fantasma.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Riuscire a sopportare che lei guardi fuori campo, altrove, che non sia lei. Che metà del viso stia in campo e il resto sfumi
fuori dal rettangolo. Ripresa con macchina fissa, per simulare rispetto.
Per<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>illudersi di non volerla
uccidere.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<!--EndFragment-->
<br />
<!--EndFragment-->
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-59375158342295372402014-06-14T16:01:00.003+02:002014-06-17T15:12:04.148+02:00<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">I piccoli centri hanno un doppiofondo. Osservando da vicino i
contorni delle cose, se ne coglie un riverbero, come oggetti disegnati da un
astigmatico.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Questo piccolo paese, quasi deserto per gran parte dell’anno,
sembra collocato in quegli angoli di casa dove non arriva l’aspirapolvere. Gli
anziani seduti sulle sedie di legno, sulle panchine, con le camicie abbottonate
fino al collo, le giacche appassite, lo sguardo che gira lentamente intorno, a
sorvegliare che il tempo non passi. Tutto sembra così familiare, confidenziale.
Prossimo, domestico. Sembra così ovvio che una ragazza si senta chiamare da
altrove, che soffra di claustrofobia, di mal d'Africa. Come si fa a vivere
un’intera vita tra la cucina e il pianerottolo di casa, senza desiderare
l’anonimato di Parigi? Senza ingoiare silenziosamente il desiderio feroce di
incontrare sconosciuti, estranei, di smarrirsi in una metropoli… <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Eppure questi luoghi sono straordinariamente filosofici, le
immagini possiedono un livello di equivocità che in nessuna città riesco a
sentire. Oggi pomeriggio camminavo con Lorenzo, che fra un paio di mesi compirà
dieci anni. Alle tre le strade erano vuote. Questo tessuto di vie
perpendicolari, di case bianche, spagnole, greche, borboniche, maghrebine.
Tutto era ripulito e complicato dal vento, e le bandiere dei mondiali di calcio
riempivano il cielo bianco della controra, scenografia di una festa dove gli
invitati non sono ancora arrivati, o sono andati tutti via. Le vie qui sono
lunghe, dritte, si riesce a vedere molto lontano. Gli oggetti sembrano sempre
inquadrati con un teleobiettivo, schiacciati contro uno sfondo distante,
sgranato. Lorenzo camminava guardando in basso, in silenzio, con un passo pieno
di eroismo immaginario. Ogni immagine che attraversavamo era piena di una
bellissima doppiezza, di un’ambiguità seducente: vicina, quotidiana, tangibile,
e proiettata verso l’infinito. Come in <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Heremakono</i>
di Sissako, dove basta una finestra aperta, sul bordo destro dell’inquadratura,
a riempire di interminati spazi una piccola stanza. A riempire di profondissimo
deserto un gesto usuale, monotono. Dettagli stretti e campi lunghissimi.<o:p></o:p></span></div>
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<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">La stessa cosa accade a Urbino, nel tardo pomeriggio estivo.
Se ti allontani dalla piazza, e superi il teatro, puoi vedere una ragazza
chiacchierare al telefono, appoggiata a un muretto qualunque, proiettata contro
l’azzurro lontano degli Appennini. E allora, qualche volta, ho pensato che ha
ragione Renoir a immaginare che, forse, gli ultimi dinosauri siano morti senza
resistere.<o:p></o:p></span></div>
</div>
</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-39368944938644784552014-02-01T14:48:00.002+01:002014-06-14T16:22:35.666+02:00<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;"><span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">L’amour fou</span></i><span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;"> di Rivette. La bellezza di uno sguardo indefinitamente ampio,
continuo, duraturo. Guardando il film ho l’impressione che la materia di cui è
composta l’immagine sia eccezionalmente densa, e che, se provassi a ritagliarne
ed ingrandirne una porzione, questa densità non si ridurrebbe, non mi troverei
di fronte alla rarefazione della grana o dei pixel. Che strano che qualche
decennio fa film di questa portata fossero prodotti e distribuiti. E che
potessero anche dialogare con un pubblico, sia pure molto selezionato. Quattro
ore di piani-sequenza, sospensioni narrative (apparenti), battute mormorate con
poca enfasi, universo sonoro ruvido, ricchissimo, disperso. In un minuto di
film ci sono almeno quaranta secondi che un produttore condannerebbe come tempi
morti; e, più in generale, l’intera architettura drammatica del montaggio
sarebbe giudicata inefficace, debole, inadeguata a definire con chiarezza i
personaggi e lo sviluppo della trama. L’occhio si è impigrito.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Tempo fa in TV, su Rai Storia, hanno riproposto un programma
di fine anni ’70, <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Viaggio in seconda
classe</i>, di Nanni Loy, una sorta di candid camera seria che si svolgeva
nello scompartimento di un treno. Il regista prendeva a chiacchierare con
l’inconsapevole compagno di viaggio, e l’operatore, nascosto nello
scompartimento adiacente, riprendeva tutto. Non c’erano molti tagli nel filmato
che veniva presentato ai telespettatori. Tempi lunghi, pochi zoom narrativi.
L’argomento della discussione aveva lo stesso ritmo delle chiacchiere che si
scambiano con uno sconosciuto su un treno: dialogo abbastanza frammentato,
discorsi iniziati e lasciati a metà, lunghi momenti di silenzio, riflessioni
mormorate con confidenza indolente. Sonoro magnifico: si capisce molto poco!
Loy era costretto a ripetere con voce da sordo le battute dell’interlocutore
che rischiavano di disperdersi nel rumore del treno. Le tracce dell’Italia di
quegli anni si leggono proprio nei tempi morti, nei momenti stanchi in cui
l’argomento sfuma, e l’anziano accanto al regista guarda fuori dal finestrino,
si aggiusta il cappello o muove la mano come un vecchio bambino. Come facevano
i telespettatori del tempo a seguire un programma così? Così dilatato. Così
poco confezionato. Perché l’orecchio riusciva a decifrare un sonoro così poco ripulito?
Perché l’occhio coglieva particolari che occupavano un piccola parte dello
schermo, senza un’inquadratura dettaglio che ne esaltasse le dimensioni e il
significato?<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Quando ho visto per la prima volta <i style="mso-bidi-font-style: normal;">La grande illusion</i>, mi ha colpito molto la scena del prigioniero
inglese che si traveste da donna: il piano-sequenza che descrive il silenzio
improvviso dei compagni di prigionia è davvero una delle inquadrature più belle
della storia del cinema. Non ho rivisto il film per molti anni, ma ho
conservato nella memoria un’immagine molto netta, forte di quella sequenza,
come fosse il passaggio più emozionante di un brano musicale. Poco tempo fa
l’ho riguardata e sono rimasto sorpreso dalla leggerezza con cui è girata:
senza accenti, senza indugiare sulla simmetria dell’inquadratura, senza
sottolineare il significato profondo dell’immagine. Non la ricordavo così. Sembra
una scena di passaggio, buttata lì con la spensieratezza gioconda con cui
Renoir trattava il tragico. Chissà come reagirebbe il pubblico di adesso... E
chissà se io stesso avrei la reazione emotiva che ho avuto quindici anni fa… Se
la mia memoria ha ricostruito l’immagine con un condimento più ricco,
aggiungendo esaltatori di sapidità – me la ricordavo più contrastata, più
lunga, più espressionista –, significa che le mie richieste di spettatore si
sono aggiornate, ho esigenze diverse, ho bisogno di stimoli più decisi, più
espliciti, di sapori più forti. Un po’ come succede nelle sequenze conclusive
dei film d’azione americani: negli anni ’60 il cattivo moriva schiantandosi con
la sua auto fuori strada; qualche anno dopo la macchina, nel giro di pochi
secondi, andava a fuoco; nei film contemporanei esplode non appena si verifica
l’impatto, come fosse imbottita di nitroglicerina. Al di là del problema
dell’inverosimiglianza, è evidente che le richieste dello spettatore hanno
subito una modifica (insieme attiva e passiva), e la spettacolarità dello
schianto di un’auto non basta più a soddisfare le aspettative del pubblico.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Forse si dovrebbe approfondire il fenomeno della noia: cos’è
che annoia? Perché, in alcune situazioni, si innesca (volontariamente credo)
questo meccanismo che chiamiamo noia? Un meccanismo difensivo, probabilmente.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Stamattina, scorrendo le notizie on-line, a proposito del
maltempo di questi giorni, uno dei titoli annunciava “Bomba d’acqua nel Centro
Italia!”. Ovviamente occhio e orecchio sono automaticamente scossi dal termine
“bomba”, e dalla pluralità di direzioni ed associazioni che la parola evoca:
esplosione, attentato, minaccia, morte, pericolo, terrorismo, etc. Eppure io
non ho avuto (in apparenza) una reazione particolarmente agitata. Probabilmente
sono scattati i meccanismi di difesa che inibiscono la mia sensibilità, la mia
reattività. Perché io venga eccitato dall’informazione è necessario qualcosa di
diverso, qualcosa in più, qualcosa che sia in grado di aggirare i miei
anticorpi. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Il problema si fa più evidente quando occhio e orecchio si
confrontano con il mondo senza la mediazione di uno schermo. O, per essere più
precisi, quando lo schermo che ci separa/congiunge dalla realtà raggiunge un
livello molto alto di trasparenza, e io ne dimentico la presenza, la
mediazione. Come togliere gli occhiali e mettere le lenti a contatto. Il
bisogno di attenzione, le aspettative, le richieste narrative che rivolgo alla
realtà che osservo dalla finestra si fanno più implicite, più silenziose.
Clamorosamente silenziose. E io continuo a comportarmi come un bimbo di 37 anni
che non è ancora uscito dal box, ma che è convinto di essere adulto.<o:p></o:p></span></div>
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<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Qualcuno mi raccontava, tempo fa, di aver fatto un viaggio in
Polonia, con un gruppo di amici, e di aver visitato il campo di Birkenau. Uno
dei compagni, alcuni mesi dopo, gli aveva confessato di non aver provato
particolare emozione, durante la visita: pareti, pavimenti, porte, travi,
legno, cemento, metallo. Non aveva trovato niente di straordinario in questi
oggetti, in questi materiali. Al ritorno in Italia, però, aveva rivisto quei
luoghi in un documentario. E allora sì, si era commosso.<o:p></o:p></span></div>
</div>
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-16247393752496584832013-11-01T04:28:00.000+01:002014-06-14T16:23:29.581+02:00<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Lunedì pomeriggio sono stato per la prima volta nel quartiere
di Ponte Armellina, quel ritaglio di Urbino dove vivono gli immigrati. È
chiamato anche Urbino 2. Dovrò tenere un laboratorio di cinema per gli
adolescenti che risiedono lì, ma è previsto che partecipino anche ragazzi
italiani. Il progetto include anche la realizzazione di un documentario, e io
ho cominciato già da tempo a ragionarci su. Non trovo ancora la via, però.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Più che di un vero e proprio quartiere, si tratta di due o tre
edifici raccolti insieme, con decine di appartamenti. Gli abbiamo girato
intorno con la macchina, e poi siamo entrati nella parte interna, quella
racchiusa dai palazzi. Il modo in cui il quartiere è disegnato insiste sul
carattere isolato, apparentemente autosufficiente del luogo. Una piccola
comunità – più o meno omogenea – a cui è stata assegnata una porzione di spazio
separata. I ragazzi di Urbino con cui ho parlato del progetto non conoscevano
nemmeno l’esistenza di questo luogo: la campagna che circonda Ponte Armellina
svolge efficacemente la sua funzione isolante.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Gli edifici non sono molto belli da vedere, e non sono
riuscito a indovinarne l’età. I muri sono scorticati, inumiditi, opachi. Mi
ricordano alcuni quartieri di Roma, quelli più disagiati, ma con un’atmosfera
meno alienante, meno drammatica. O anche alcune vie di Pomezia – via Singen,
via Catullo -, lì dove, tra noi compagni delle scuole medie, si diceva di non
passare, per evitare problemi.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Lunedì pioveva, e il paesaggio era ancora meno brillante.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Siamo entrati in uno dei portoni, per visitare il centro di
aggregazione destinato a bambini e a ragazzini. La responsabile, per aprire la
porta del centro, ha dovuto spostare gli stendini pieni di panni stesi dalle
famiglie che vivono nei vari appartamenti, lì al piano terra. Chissà com’è
l’atmosfera in estate, col bel tempo…<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Mentre camminavamo sulle strade che dividono i due o tre
edifici, cercando di evitare le pozzanghere, mi immaginavo con la videocamera
in mano, già al lavoro con le riprese. E il cielo si è rabbuiato ulteriormente.
Come faccio a filmare questa gente, questi luoghi? Una donna ha aperto la porta
di casa, in pantofole. Dentro si sentiva un bambino reclamare in lungua araba
(credo…) qualcosa ad alta voce. La donna ci ha studiato per un attimo, poi ci
siamo scambiati un saluto rapido. Come faccio a riprenderla? Come faccio a
puntargli addosso la videocamera senza che divenga clamorosamente esplicito lo
spirito paternalistico che pervade il mio gesto, il mio lavoro? Non mi sembra
possibile evitare che ogni inquadratura sia effettuata dall’alto, con
l’estraneità incuriosita di Darwin che si aggira nelle Galapagos per studiarne
flora e fauna. Non mi piace.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Qualche tempo fa ho visto <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Sacro
GRA</i>, e la macchina da presa mi è parsa davvero poco affettuosa nei confronti
di ciò che riprendeva. Invadente, impicciona, inopportuna come l’occhio della
televisione.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Alle volte immagino di fare solo riprese audio, di nascosto, e
poi montare esclusivamente il sonoro sullo schermo nero. Però non si
tratterebbe di una scelta estetica (peraltro già fatta da altri…), ma di una
semplice scorciatoia presa per aggirare il pudore e il senso di colpa.<o:p></o:p></span></div>
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<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Cammino per le strade dei piccoli centri abitati pugliesi, e
al solito rimpiango di non avere un videocamera con me, immagino movimenti
laterali, sequenze, documentari. Gli anziani in canottiera seduti fuori dalla
porta, fermi lì da secoli, i tronchi rugosi degli ulivi, le case bianche col
tetto piatto - spagnole, greche, abbaglianti. I muri scorticati, la
pavimentazione in marmo delle vie. La carnagione scura di bambine in
bicicletta, familiari, esotiche. Inquadrature semplici, silenziose, discrete,
registrare figure che toccano le corde della memoria, della mia memoria. Da
anni, percorrendo i vicoli di San Paolo, progetto di dedicare alcuni minuti di
un film a queste strade dalla geometria improvvisata. Affollate e sempre
deserte. Mentre ci muoviamo dalla piazza verso casa vedo una donna che viene
verso di noi. Si trova a circa trecento metri. L’immagine è molto bella.
Andrebbe ripresa da lontano, stringendo su di lei, schiacciandola sullo sfondo
sfocato dei panni che festeggiano in cielo, delle finestre basse, del bianco
luminoso dei muri. Cammina verso di noi guardando in basso, con una borsa di
plastica in mano. Bello.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Perché bello? Perché mi pare che l’immagine sia così
cinematografica? Sembra davvero che il contatto tra il mio occhio e il
movimento della donna, dei panni, del vento sia eccezionalmente armonico. Così
integrato da richiedere di essere catturato e riprodotto. Un piacere da
registrare, custodire ed assaporare nuovamente. Il bello kantiano, il felice
incontro tra le figure della mia immaginazione e le forme che colpiscono lo
sguardo. Probabilmente quello che vedo rievoca film che ho già visto: i solchi
sulla corteccia dei volti anziani che mi seguono con lo sguardo sono già stati
filmati qualche decennio fa, dopo la guerra, nelle periferie di Roma, in
Sicilia, a Napoli. La donna che mi viene incontro potrebbe essere un’attrice
non professionista che attraversa lo schermo di una sala cinematografica
italiana, negli anni ’40. Allora la sporcizia di certe immagini destava
scandalo, dissonava con le aspettative del pubblico. Il suono opaco dei
dialetti, l’irregolarità della città ripresa da un finestrino risultavano
indigesti, come gli accordi minori, qualche secolo fa. Ora no. Ora filmare i
lotti incolti di San Severo, contro lo sfondo delle case popolari, rischia di
scivolare nella maniera, nel <i style="mso-bidi-font-style: normal;">cliché</i>.
Devo fare attenzione a non accomodarmi nella comoda poltrona della citazione.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">Eppure l’arte non può essere solo sacrificio, ascetica
negazione del piacevole. Si rischia il pessimismo di quel personaggio di <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Lisbon story</i> che decide di filmare il
mondo con una cinepresa collocata dietro la schiena, in modo da ridurre al
minimo il peso della propria presenza, del proprio gusto. Non posso riprendere
un luogo con la frenesia infantile chi cerca di imitare i film del passato,
schiacciando la realtà sotto il peso della storia del cinema. Ma non posso
nemmeno negare il mio gusto, costruire un’estetica capovolta – “mi piace
quest’inquadratura, e allora ne scelgo un’altra”.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 13.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 10.0pt;">La videocamera è un mezzo meccanico, una linea di confine tra
il mondo chiaro dell’uomo e l’oscurità della materia. La videocamera riproduce
le mie intenzioni, ma resta sempre un margine di autonomia di questo strumento
mostruoso, metà umano e metà alieno. Il suo lavoro non si esaurisce nelle direttive
che io le ho dato. Fa qualcosa in più. Mi porta qualcosa in più, qualcosa di
nuovo. Il margine di libertà che questo meccanismo mantiene è quanto di più
prezioso io possa avere, mentre registro la realtà. Quante volte mi è capitato
di riprendere un evento, un gruppo di persone, e poi, riguardando il girato, di
accorgermi di dettagli e figure a cui non avevo fatto caso. L’impossibile di
Maurice Blanchot, ciò che deborda dalle mie possibilità di controllo, dai
limiti del mio orizzonte. Ciò che deride la mia velleità di onnipotenza.<o:p></o:p></span></div>
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<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 12.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 13.5pt;"><span style="color: #f6b26b;">Primi
giorni di giugno. L’incoscienza giovane del sole, la luce più bella dell’anno
che passa spietata sui funerali e sui matrimoni.<o:p></o:p></span></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 12.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 13.5pt;"><span style="color: #f6b26b;">In
macchina, con la radio accesa. La regolarità armonica della musica fa da
colonna sonora al piano-sequenza proiettato sul parabrezza, sui finestrini, sul
retrovisore. E tutto sembra sensato, orientato. I legami tra le cose sembrano i
particolari di un tessuto sterminato, di una danza raffinata, dettagliata,
intrecciata con la cura con cui un ragno architetta la propria bava. Una bella
ragazza mulatta cammina sul ciglio della strada. Ha le cuffie. Scorre via in
pochi secondi.<o:p></o:p></span></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 12.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 13.5pt;"><span style="color: #f6b26b;">Ai
tempi della scuola mi capitava spesso di ascoltare musica mentre mi preparavo
ad uscire. E poi il lutto dell’istante in cui spegnevo lo stereo, e la colonna
sonora che dava significato al mondo s’interrompeva brusca, drastica. E poi
uscire con la nostalgia di quell’entusiasmo musicale lasciato a casa.<o:p></o:p></span></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 12.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 13.5pt;"><span style="color: #f6b26b;">Molte
volte ho pensato che sarebbe stato bello portarsi appresso una paio di cuffie
microscopiche, e mantenere in sottofondo, costante, una musica che desse senso
alle immagini, agli eventi, agli incontri. Ai pomeriggi dilatati. Alle attese
prolungate nella piazza anonima di Pomezia. Al colore sciapo delle pareti senza
memoria. Una musica che mi permettesse di cogliere il nesso, di non perdere il
filo, che trasformasse l’esistenza in un tutto organico, cinematografico.<o:p></o:p></span></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 12.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 13.5pt;"><span style="color: #f6b26b;">Che
orrore.<o:p></o:p></span></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 12.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 13.5pt;"><span style="color: #f6b26b;">Schopenhauer,
scrivendo le pagine del <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Mondo </i>dedicate
alla musica, deve aver avvertito uno stato d’animo simile: Rossini che permette
di cogliere il Vero. L’armonia e la melodia che rendono udibile, tangibile il
senso più profondo dell’esistenza. L’autentico significato di un evento.<o:p></o:p></span></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 12.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 13.5pt;"><span style="color: #f6b26b;">Chissà
come avrebbe reagito Schopenhauer di fronte alla visione di tre, dieci versioni
della stessa sequenza video, ciascuna montata con un sonoro diverso… Una volta
accompagnata da Bach, un’altra da un pezzo <i style="mso-bidi-font-style: normal;">jazz</i>
brillante e noioso, un’altra con le orchestrazioni aggressive di Varèse. Poi
con il sonoro in presa diretta – senza musica. E ancora con le immagini che
vanno da sole, senza alcun suono o rumore. Qual è il senso? Qual è quello vero?
Quale preferisco?<o:p></o:p></span></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 12.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 13.5pt;"><span style="color: #f6b26b;">Perché
sopportiamo meglio la precarietà delle immagini di quella del sonoro?
L’accostamento graffiante di inquadrature incoerenti, girate in formati
diversi, in epoche diverse, con luci, colori, qualità dissonanti: questo è
ormai abbastanza digeribile. L’incoerenza sonora, l’imprecisione dei tagli, il
rumore di fondo restano ancora indigesti. La traccia audio salvaguarda la mia
permanenza, la mia unità. Garantisce l’immortalità dell’anima.<o:p></o:p></span></span></div>
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<span style="font-family: "Lucida Grande"; font-size: 12.0pt; line-height: 150%; mso-bidi-font-size: 13.5pt;"><span style="color: #f6b26b;">Vedendo
<i style="mso-bidi-font-style: normal;">Un’ora sola ti vorrei</i>, di Alina
Marazzi – il ritratto provvisorio dell’assenza, un insieme di frammenti di
memoria dichiaratamente in conflitto – ho avvertito il netto contrasto tra
audio e video. I rumori sono doppiati. Il percorso sonoro non ha buche, è ben
asfaltato, coerente. Sono sempre io a riorganizzare il mondo, mi dice. Sono
sempre io, al di là delle mie tante metamorfosi. Sono sempre io. Il punto di
fuga della (dalla) vita. Il riparo che difende dalla dispersione.</span><o:p></o:p></span></div>
</div>
</div>
</div>
</div>
</div>
</div>
</div>
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<br />
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">Bello, piacevole, dissonante, armonico.<o:p></o:p></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">In un pomeriggio qualunque sto seduto sul divano di casa. Accanto
a me c’è Francesco, pensatore sottile e psicologo implicito. Guardiamo la tv,
senza un motivo particolare, senza destinazione, senza interesse: come fare il
morto a galla negli ultimi minuti di una giornata di mare. C’è una trasmissione
in cui vengono offerti allo sguardo del pubblico uomini alti mezzo metro, donne
tatuate sotto le palpebre, individui con orecchini piantati sotto le unghie. O
forse no, forse ricordo male. Forse si tratta di una di quelle trasmissioni in
cui un gruppo di giovani depilati discutono dei loro sentimenti e delle loro
emozioni. Non riesco a mettere a fuoco se sia l’uno o l’altro programma, ma
cambia poco. L’intenzione degli autori è comunque quella di stuzzicare le tante
corde emozionali dello spettatore contemporaneo: il disgusto, la compassione,
il senso di superiorità, l’aggressività compressa, l’onnipotenza virtuale, il
sadismo, la diffidenza.<o:p></o:p></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">La nostra rabbia antica è ormai fossile. Silenziosa, rancorosa,
sorridente, adeguata.<o:p></o:p></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">Cominciamo a riflettere su un possibile atto di terrorismo estetico.
Quale potrebbe essere l’evento improvviso, il gesto, l’attentato che squarcia
il velo di questa tragica monotonia? Prima proposta, istintiva e viscerale:
mentre la presentatrice parla, con il suo sorriso sovraesposto, le arriva una
secchiata di merda in faccia. No. Ci rendiamo immediatamente conto che sarebbe
un errore. Il sistema televisivo – e non solo quello televisivo – si alimenta
di eventi di questo genere, volgari, raccapriccianti, disgustosi. Anzi, la
nostra scelta sarebbe un boccone prelibato, verrebbe trasformata immediatamente
in linfa vitale. Per settimane, mesi, su <i>youtube</i>
migliaia di utenti guarderebbero divertiti la sequenza della donna
ridicolizzata. Altro che terrorismo estetico.<o:p></o:p></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">La seconda ipotesi è più seria, violenta: un colpo d’arma da fuoco
colpisce il primo piano del conduttore. Ma questa soluzione è di gran lunga
peggiore della precedente. Al di là delle questioni morali, il sistema si
rafforzerebbe, i suoi soldati, per di più, otterrebbero il premio del martirio.
In ogni caso, il risultato non sarebbe molto diverso da quello ottenuto dalla
prima proposta: i telegiornali, il <i>web</i>,
i canali di comunicazione riproporrebbero a getto continuo il simulacro
dell’orrore, e il bimbo continuerebbe a dormire il suo dolce sonno, dietro una
parvenza di scandalo e <i>shock</i>.<o:p></o:p></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">No. Sono proposte da dilettanti.<o:p></o:p></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">Forse dovremmo riflettere con attenzione e cercare di definire
cos’è davvero il terrorismo estetico. Cos’è che terrorizza il sistema? Cos’è
che dà davvero scandalo, un terrore così profondo da indurre questo grande
animale a rimuovere ogni traccia, ogni riflesso, ogni immagine di ciò che lo
provoca? Cos’è che fa paura? Gli spari, la violenza, la decomposizione dei
corpi, la deformità; le urla, la sofferenza, l’agonia; il sadismo, la notte, la
sporcizia, la violenza estrema: tutte immagini che l’uomo contemporaneo
desidera, va a cercare, predilige, seleziona con gusto – qualunque sia la
giustificazione che egli si dà di questo desiderio.<o:p></o:p></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b;"><span style="font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">Pasolini abiurò la trilogia della vita sostenendo che la
sessualità dirompente che in quei film si esprimeva era stata immediatamente
digerita dal sistema. In pochi anni si era passati dal <i>Decameron</i> a <i>Quel gran pezzo
dell’Ubalda. </i>No, bisogna fare molta attenzione: il sistema si aggiorna con
grande rapidità, e così fa la sua ombra. Il taglio dell’occhio di </span><span style="font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">Bunuel
diventò maniera già qualche mese dopo la sua comparsa sugli schermi parigini. Ora,
dopo più di ottant’anni, io lo posso inserire in un </span><i style="font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">videoclip</i><span style="font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;"> qualunque e ricevere complimenti sinceri da chi lo
guarda.</span></span><br />
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<!--StartFragment--><!--EndFragment--><span style="color: #f6b26b; font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">Io e Francesco riflettiamo come fossimo in un laboratorio. E ci sembra
che, nei nostri tempi, ciò che c’è di più terribile, di più indigeribile, di
più dissonante sia la noia. Ci si affanna ad evitarla con meticolosa
attenzione. La rottura del ritmo narrativo è la rappresentazione più spaventosa
dell’angoscia: c’è un problema tecnico e per otto minuti non si riesce a
cambiare inquadratura. E magari si tratta di un’inquadratura stretta su un
punto insignificante dello studio televisivo, dove non accade niente. E magari
si guasta anche l’audio, il che impedisce di rimediare con qualche battuta
spettacolare pronunciata fuori campo. La noia è il rimosso del nostro sguardo,
l’ombra che tento disperatamente di dimenticare, ma che mi riempie dall’interno,
inumidisce i vestiti, le parole, le lenti a contatto. Come un folle che si
affannasse a liberare Venezia dall’acqua e non riuscisse a dormire per i reumatismi.</span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">Proviamo a prendere il potere per una sola serata – ci diciamo –,
e mandiamo in onda a reti unificate una serie di inquadrature di dieci minuti
l’una, piani-sequenza girati con macchina fissa, campi lunghi che riprendono
paesaggi ordinari: strade, periferie, campagne, spiagge, edifici. Quel che si
può vedere da una finestra qualsiasi, e senza che accada nulla di spettacolare.
Inquadrature ampie, indefinitamente ampie, con una durata <i>sbagliata</i>, dissonante, che faccia andare la narrazione <i>fuori tempo</i>. I telespettatori
cambierebbero sicuramente canale. E se non fosse possibile? Probabilmente
scoppierebbe la rivoluzione, una volta tanto. Il sistema insorgerebbe contro
l’insopportabile. Forse.<o:p></o:p></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;">In quei momenti ho pensato che il titolo da dare ad un laboratorio
di cinema poteva essere proprio questo, <i>Fuori
tempo</i>.<o:p></o:p></span></div>
<div style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="font-family: 'Lucida Grande'; font-size: 12pt; line-height: 150%;"><span style="color: #f6b26b;">Io e Francesco abbiamo poi ripreso a fare i morti a galla davanti
alla tv.</span><o:p></o:p></span></div>
<!--EndFragment-->Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-25725970313939707512013-05-08T14:51:00.000+02:002013-06-10T17:18:33.459+02:00<br />
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">Qualche giorno fa sono stato a Lamoli di
Borgo Pace con alcuni ragazzi delle scuole superiori di Urbino, per un
laboratorio di cinema. Quattro giorni molto belli, durante i quali, tra le
altre attività, abbiamo fatto molte riprese.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">Lamoli è un centro davvero piccolo, sospeso
tra Marche, Umbria e Toscana. Silenzioso. Dilatato. Passeggero. In alcuni
momenti il suo ritmo mi ha ricordato quello che ascoltavo a Srebrenica, qualche
anno fa: la stessa attesa, la cadenza regolare del passaggio di qualche auto,
ogni tanto. Le colline intorno, un po’ cupe, a difendere e imprigionare le
case. In cima alle colline gli alberi tesi, come i guerrieri di Kurosawa che si
apprestano alla battaglia. Eppure il rumore di fondo era diverso,
necessariamente. A Srebrenica è impossibile ripulire lo sguardo dal cono
d’ombra della guerra.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">Avevo pensato di riprendere questo ritmo,
questa lentezza.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">Ho assistito, non visto, ad una scena del
tutto ordinaria. Un ragazzo di colore si è avvicinato alla porta di
un’abitazione. Ha bussato, una donna anziana gli ha aperto. Lui ha riproposto
il suo solito discorso di richiesta-offerta, ma dopo tre parole l’altra ha
richiuso la porta. Il ragazzo è rimasto fermo qualche istante, poi si è
guardato intorno. Non era scosso né rassegnato. Sicuramente gli capiterà molto
spesso una reazione del genere. Finalmente si è mosso, camminando verso la
strada con il passo morbido dei giocatori di basket. Nient’altro. Ho pensato
che se avessi avuto con me la videocamera avrei potuto filmare questo inutile
evento, questo accidente effimero nella storia universale. Poco interessante,
senza morale. (Quella sull’integrazione degli immigrati esigerebbe fatti ben
più consistenti e succosi di questo). E poi non era il significato morale ad
attrarmi. Mi colpiva il ritmo della scena, e come questo ritmo si sciogliesse
armonicamente in quello generale del contesto, nella sinfonia discreta di
questo centro abitato.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">Ma la videocamera era in albergo. E anche
se l’avessi avuta con me forse non avrei filmato.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">Per paura, per pudore. Per vergogna,
imbarazzo. Puntare l’obiettivo contro qualcuno mi mette a disagio. Non so cosa
accada ad altri che fanno questo lavoro: a dire il vero, sento parlare poco di
questo disagio. Non è un gesto innocente, o almeno io non lo avverto così.
Filmare gli attori che recitano un copione che tu gli hai assegnato attenua
questo pudore, ma modifica anche il piacere di sorprendere l’imprevisto.
Riprendere visi, gesti, rumori, eventi casuali, per strada, non ha lo stesso
sapore di costruire una scena, in un contesto scenografico controllato, con
azioni preventivate in modo più o meno dettagliato. Non è più bello: è diverso.
Ma questo piacere si accompagna all’ansia, alla vergogna.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b;"><span style="font-family: "Lucida Grande";">Il mio amico fotografo Alessandro un giorno
mi ha detto: “Il vero <i>reporter</i></span><span style="font-family: "Lucida Grande";">
usa il grandangolo, non il teleobiettivo. Col teleobiettivo ti tieni a
distanza”. Ecco, se l’affermazione di Alessandro è vera (ed è probabile che lo
sia), io non sono un <i>reporter</i></span><span style="font-family: "Lucida Grande";">.<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">Forse si dovrebbe correre all’indietro, sul
filo dell’evoluzione, e recuperare ciò che giace al di sotto della macchina da
presa, al di sotto dell’atto del guardare, del registrare. L’arma tesa contro
l’altro di cui ho già parlato nella prima pagina del blog. Il desiderio di
appropriazione, peccaminoso, illecito. Blasfemo.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b;"><span style="font-family: "Lucida Grande";">Ho letto, qualche tempo fa, un
bell’articolo di Sylvie Rollet, <i>Lo scudo di Perseo: le figure del doppio in
“Viaggio a Cytera” di Anghelopulos.</i></span><span style="font-family: "Lucida Grande";">
L’autrice confronta lo schermo cinematografico con lo scudo che Perseo adopera
per uccidere la Gorgone. Ucciderla evitando di incrociarne lo sguardo mortale.
Colpirla nel suo riflesso, per non guardarla direttamente. <o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">Quando lo scudo che ci difende dall’occhio
di Medusa – e dal nostro stesso desiderio – è lucidato con troppa cura, e la sua superficie è levigata
fino al minimo grado di opacità, allora c’è il rischio di dimenticare che si
tratta di un riflesso, confondere l’alterità con l’identità. Fraintendere il
proprio potere.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">Forse è proprio in quel caso che si manca
il bersaglio. E la Gorgone è già altrove.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<br /></div>
<!--EndFragment-->
Anonymoushttp://www.blogger.com/profile/10249996284214011377noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1311568935048192351.post-83802953920986480442013-04-19T20:46:00.002+02:002013-06-10T16:59:42.615+02:00<link href="file:///Macintosh%20HD/Users/Alea/Library/Preferences/Microsoft/Clipboard/msoclip1/01/clip_clip_filelist.xml" rel="File-List"></link>
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<br />
<span style="color: #f6b26b;"><br /></span>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">A cosa serve parlare di cinema.</span><br />
<span style="color: #f6b26b;"><span style="font-family: "Lucida Grande"; line-height: 150%;">Non vedevo <i>Le Mépris </i></span><span style="font-family: "Lucida Grande"; line-height: 150%;">di Godard da molto tempo, e avevo
dimenticato che si apre con la citazione di Bazin. </span><span style="font-family: 'Lucida Grande'; line-height: 150%;">“Il cinema sostituisce al
nostro sguardo il mondo che desideriamo”.</span></span><br />
<span style="color: #f6b26b; font-family: 'Lucida Grande'; line-height: 150%;">Il cinema come tragica dissociazione.
Antica, solita illusione di dissociazione. L’uomo raccoglie da terra un ramo
spezzato che gli permette di prolungare il suo braccio, una protesi che gli
consente (forse) di arrivare altrove. Un’arma, un ponte, uno strumento che
congiunge e dissocia dalla natura. È l’illusione di essere contronatura, al di
fuori, al di là, al di sotto, al di sopra di essa. Estraneo. E il bastone si
deforma, si contorce: una spada, una macchina, una penna. Una macchina da
presa. Lo sguardo stesso dell’uomo come illusione di non-appartenenza, di
estraneità. Di alienazione.</span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">Se il cinema germoglia sulla tragica
frattura che crediamo ci distingua dalla vita, che senso ha moltiplicare ancora
questa dissociazione? Perché parlare, costruire concetti, sostituire le parole
allo sguardo? Parlare piuttosto che partecipare. Parlare di cinema: dissociarsi
da una dissociazione. Copia di copia.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">Perché non abbandonarsi, addormentarsi,
lasciarsi cullare dalla voce impostata, ipnotica del mito? Degli dèi, degli
eroi. Lasciarsi portare dai carrelli laterali, dal montaggio invisibile.
Dimenticare.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b;"><span style="font-family: "Lucida Grande";">Tempo fa osservavo una bambina e il suo
papà agitarsi sulla sedia di fronte al montaggio alternato di una sequenza di <i>Back
to the future</i></span><span style="font-family: "Lucida Grande";">. Ed io
dietro di loro, come la rigida cerebralità di un vigile. Perché non sciogliersi
nell’utero rassicurante della sala buia? E mantenere invece quel margine di
veglia, come l’intervallo che separa un fotogramma dal successivo. Come lo
spazio bianco tra le parole. Come si dice nelle pagine di quel libro che ho
letto alcuni mesi fa, <i>Tra le immagini. Per una teoria dell’intervallo</i></span><span style="font-family: "Lucida Grande";">.<o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">Eppure – forse – la bellezza del cinema risiede proprio lì, in quello spazio,
in quella separazione antichissima. Nel rifiuto, nel disprezzo. Nel tragico
destino di sentirsi contronatura, apolidi. Appartenenti e non appartenenti.
Come un osso che si frattura, e nella crepa si forma il nuovo tessuto che cerca
di ricomporre l’irrevocabile. Ed è fatto di racconti, di occhiali, di parole.
Di riflessi. Di riflessioni.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify;">
<span style="color: #f6b26b; font-family: "Lucida Grande";">I fiori che fioriscono tra il regista vero e la
sua copia, nel viaggio in moto di <i>Close up</i></span><span style="font-family: "Lucida Grande";"><span style="color: #f6b26b;">.</span><o:p></o:p></span></div>
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