mercoledì 11 gennaio 2017


Montaggio discontinuo.
Alcuni mesi fa lavoravo a un video inutile. Senza utilità e senza intenzione chiara. Ho raccolto molto materiale: dettagli di oggetti, crepe, tronchi, visi, panchine, nuvole, fiocchi di neve, piedi, peli, aerei, gesti. Per alcuni giorni, attraverso il finestrino, sulla strada che mi portava in centro, mi ha colpito una siepe di foglie scarlatte. Si mescolava ad altre siepi con foglie di verde intenso, e al bianco dei germogli di un albero. Lì, sul marciapiede che corre accanto alla strada asfaltata. Questa composizione mi piaceva, come solo l’intensità della primavera può piacere e spaventare. Mi fermo, armato di videocamera, per uccidere finalmente questo piacere. Riprendo per una decina di minuti le foglie, i contrasti, la sinfonia di colori. Improvvisamente sento il rumore di un click fotografico. Esplicito e sfrontato. Dalla finestra di una casa lì vicino, un tizio, vestito con tuta color depressione, mi fotografa col suo tablet. Non si nasconde, anzi: l’esplicitezza del suo gesto e la sua espressione seria e tesa mi comunicano con chiarezza qualcosa. Sembra volermi dire che mi aspettava. Che gliel’avevano detto che sarei arrivato, che qualcuno sarebbe arrivato, prima o poi, armato e minaccioso. E lui non è affatto impreparato: sono anni che leviga la sua competenza, e ha imparato che al fuoco della videocamera altrui deve rispondere con il fuoco del suo tablet. E lo fa. Cinque o sei volte, guardandomi negli occhi come un eroe western che difende la sua famiglia. Riprendo a inquadrare le foglie. D’altro canto, perché prendermela? Il tizio ha ragione: io sono lì per fare del male. Solo che non ho intenzione di uccidere lui, ma i colori della primavera. E me stesso. Dopo pochi secondi, dal portone di casa sbuca fuori una donna. La moglie del pistolero, immagino. Si avvicina mordendomi col suo sorriso. Mi chiede cosa sto facendo e perché riprendo la sua siepe. Io cerco di camuffarmi dietro una maschera di innocua rispettabilità: mi piacevano i colori, non sono un giornalista, sono un insegnante, amo l’arte, abito qui vicino, complimenti per la siepe, e così via. Ma la signora va via delusa, frettolosamente. E scorgo dietro la finestra chiusa il marito che ci spia. Immagino che anche lui sarà deluso, quando sua moglie gli spiegherà che non sono io l’alieno che aspettavano. Magari avranno ricontrollato, interrogato la mia foto, e il mio fantasma gli avrà risposto di no. Non ancora.


Tempo fa parlavo con qualcuno. Un adulto. E si discuteva di giovani, di studenti, criticando la dipendenza dall’immagine e dai dispositivi che permettono loro di fotografarsi, ossessivamente, accumulando centinaia di selfie, di immagini di sé. Di rappresentazioni di sé. E poi, negli stessi giorni, mi trovo a coprire un collega assente in una prima. Sono tutte ragazze, una ventina. Sono inquiete come elettroni appena nati. A un certo momento, una di loro propone di realizzare un video con lo smartphone. Capisco che devono averlo già fatto altre volte, perché si muovono e si dispongono subito in una distribuzione coreografica. Parte una musica, e la ragazza armata di telefonino, camminando dalla porta alla cattedra, riprende lentamente, attentamente, le compagne immobili, immortalate in un gesto qualunque cristallizzato, come gli invitati dei primi minuti di Marienbad. La ripresa dura un minuto e mezzo circa. Le ragazze chiedono anche a me di restare immobile, di respirare il meno possibile. Ma il video non è venuto bene: qualcuna ha ceduto, un’altra ha contratto i muscoli del viso. E allora si riprova, e si riprova ancora. Per circa tre quarti d’ora, dieci, quindici volte le ragazze si posizionano come geroglifici in un museo, e la giovane compagna percorre questa foresta di statue adolescenti fissando tesa il suo telefonino. E ogni volta, quando le statue riprendono vita, ridono, respirano, la ragazza ricontrolla il video e dice di no. Non va bene. Non ancora.


Sono seduto a un tavolino di un bar, all’aperto. Pomeriggio inoltrato autunnale. Quasi sera. Uno dei tavoli è occupato da tre persone, un uomo e due donne. Chiacchierano. Li ascolto, anche se non riesco a decifrare tutti i suoni. Chiudo l’occhio sinistro e li inquadro col destro. Devo zoomare, perché sono distanti quattro o cinque metri da me. Nei loro discorsi si concentrano sulla bevanda che l’uomo ha ordinato e sta bevendo. Dev’essere qualcosa di insolito, perché una delle ragazze, quella che sta di fronte a lui, fa domande, ride, è incuriosita. Poi il tipo le offre la tazza, per assaggiare. Lei beve. Mi pare le piaccia. L’uomo la offre anche all’altra, quella che sta alla sua sinistra (il tavolino è quadrato). Ma lei, alzando il volume della voce, risponde prontamente di no. Non vuole assaggiare. Non vuole toccare la tazza. Io spengo la mia videocamera invisibile e smetto di guardarli, con un po’ di tristezza. E mi viene in mente un sogno, o un ricordo opaco, lontano, difficile da collocare. Una stanza molto piccola, piacevolmente disordinata. Una cucina. Il duro di un divano improbabile che mi sostiene. Al tavolo, a mezzo metro da me, la ragazza sta mangiando uno yogurt. Bellissima. Mi dice che è molto buono. Mi chiede di assaggiarlo. Io allungo la mano per afferrare il suo cucchiaino, ma lei tira indietro la sua. “Aspetta. Te ne prendo un altro. Uno pulito”.
E scivolo ancora, in uno dei primi ricordi che ho. Del ‘79 o ‘80, credo, tenendo conto della casa. Sono per terra, in corridoio, vicino alla porta d’ingresso. Sto giocando, forse, non ricordo bene. Improvvisamente mi accorgo del mobile con specchio che si trova a un metro scarso, alla mia destra. Realizzo l’intenzione di specchiarmi. E allora, lentamente, gattono lateralmente, finchè, sulla superficie lucida dello specchio verticale, non compare la faccia di un bambino con capelli spettinati ed espressione perplessa, delusa. Disincantata. Che mi dice di no.
No, non tu, mi dice. Non qui. Non adesso. Non ancora. Non più.
Non io.

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