Montaggio
discontinuo.
Alcuni
mesi fa lavoravo a un video inutile. Senza utilità e senza intenzione chiara.
Ho raccolto molto materiale: dettagli di oggetti, crepe, tronchi, visi,
panchine, nuvole, fiocchi di neve, piedi, peli, aerei, gesti. Per alcuni giorni,
attraverso il finestrino, sulla strada che mi portava in centro, mi ha colpito
una siepe di foglie scarlatte. Si mescolava ad altre siepi con foglie di verde
intenso, e al bianco dei germogli di un albero. Lì, sul marciapiede che corre
accanto alla strada asfaltata. Questa composizione mi piaceva, come solo
l’intensità della primavera può piacere e spaventare. Mi fermo, armato di
videocamera, per uccidere finalmente questo piacere. Riprendo per una decina di
minuti le foglie, i contrasti, la sinfonia di colori. Improvvisamente sento il
rumore di un click fotografico. Esplicito e sfrontato. Dalla finestra di una
casa lì vicino, un tizio, vestito con tuta color depressione, mi fotografa col
suo tablet. Non si nasconde, anzi: l’esplicitezza del suo gesto e la sua
espressione seria e tesa mi comunicano con chiarezza qualcosa. Sembra volermi
dire che mi aspettava. Che gliel’avevano detto che sarei arrivato, che qualcuno
sarebbe arrivato, prima o poi, armato e minaccioso. E lui non è affatto
impreparato: sono anni che leviga la sua competenza, e ha imparato che al fuoco
della videocamera altrui deve rispondere con il fuoco del suo tablet. E lo fa.
Cinque o sei volte, guardandomi negli occhi come un eroe western che difende la
sua famiglia. Riprendo a inquadrare le foglie. D’altro canto, perché
prendermela? Il tizio ha ragione: io sono lì per fare del male. Solo che non ho
intenzione di uccidere lui, ma i colori della primavera. E me stesso. Dopo pochi
secondi, dal portone di casa sbuca fuori una donna. La moglie del pistolero,
immagino. Si avvicina mordendomi col suo sorriso. Mi chiede cosa sto facendo e
perché riprendo la sua siepe. Io cerco di camuffarmi dietro una maschera di
innocua rispettabilità: mi piacevano i colori, non sono un
giornalista, sono un insegnante, amo l’arte, abito qui vicino, complimenti per
la siepe, e così via. Ma la signora va via delusa, frettolosamente. E scorgo
dietro la finestra chiusa il marito che ci spia. Immagino che anche lui sarà
deluso, quando sua moglie gli spiegherà che non sono io l’alieno che
aspettavano. Magari avranno ricontrollato, interrogato la mia foto, e il mio
fantasma gli avrà risposto di no. Non ancora.
Tempo fa
parlavo con qualcuno. Un adulto. E si discuteva di giovani, di studenti,
criticando la dipendenza dall’immagine e dai dispositivi che permettono loro di
fotografarsi, ossessivamente, accumulando centinaia di selfie, di immagini di
sé. Di rappresentazioni di sé. E poi, negli stessi giorni, mi trovo a coprire
un collega assente in una prima. Sono tutte ragazze, una ventina. Sono inquiete
come elettroni appena nati. A un certo momento, una di loro propone di
realizzare un video con lo smartphone.
Capisco che devono averlo già fatto altre volte, perché si muovono e si
dispongono subito in una distribuzione coreografica. Parte una musica, e la
ragazza armata di telefonino, camminando dalla porta alla cattedra, riprende
lentamente, attentamente, le compagne immobili, immortalate in un gesto
qualunque cristallizzato, come gli invitati dei primi minuti di Marienbad. La ripresa dura un minuto e
mezzo circa. Le ragazze chiedono anche a me di restare immobile, di respirare
il meno possibile. Ma il video non è venuto bene: qualcuna ha ceduto, un’altra
ha contratto i muscoli del viso. E allora si riprova, e si riprova ancora. Per
circa tre quarti d’ora, dieci, quindici volte le ragazze si posizionano come
geroglifici in un museo, e la giovane compagna percorre questa foresta di
statue adolescenti fissando tesa il suo telefonino. E ogni volta, quando le
statue riprendono vita, ridono, respirano, la ragazza ricontrolla il video e
dice di no. Non va bene. Non ancora.
Sono
seduto a un tavolino di un bar, all’aperto. Pomeriggio inoltrato autunnale.
Quasi sera. Uno dei tavoli è occupato da tre persone, un uomo e due donne.
Chiacchierano. Li ascolto, anche se non riesco a decifrare tutti i suoni.
Chiudo l’occhio sinistro e li inquadro col destro. Devo zoomare, perché sono
distanti quattro o cinque metri da me. Nei loro discorsi si concentrano sulla
bevanda che l’uomo ha ordinato e sta bevendo. Dev’essere qualcosa di insolito,
perché una delle ragazze, quella che sta di fronte a lui, fa domande, ride, è
incuriosita. Poi il tipo le offre la tazza, per assaggiare. Lei beve. Mi pare
le piaccia. L’uomo la offre anche all’altra, quella che sta alla sua sinistra
(il tavolino è quadrato). Ma lei, alzando il volume della voce, risponde
prontamente di no. Non vuole assaggiare. Non vuole toccare la tazza. Io spengo
la mia videocamera invisibile e smetto di guardarli, con un po’ di tristezza. E
mi viene in mente un sogno, o un ricordo opaco, lontano, difficile da collocare. Una stanza
molto piccola, piacevolmente disordinata. Una cucina. Il duro di un divano
improbabile che mi sostiene. Al tavolo, a mezzo metro da me, la ragazza sta
mangiando uno yogurt. Bellissima. Mi dice che è molto buono. Mi chiede di assaggiarlo. Io
allungo la mano per afferrare il suo cucchiaino, ma lei tira indietro la sua.
“Aspetta. Te ne prendo un altro. Uno pulito”.
E scivolo ancora, in uno dei primi ricordi che ho. Del ‘79 o ‘80,
credo, tenendo conto della casa. Sono per terra, in corridoio, vicino alla
porta d’ingresso. Sto giocando, forse, non ricordo bene. Improvvisamente mi
accorgo del mobile con specchio che si trova a un metro scarso, alla mia
destra. Realizzo l’intenzione di specchiarmi. E allora, lentamente, gattono lateralmente, finchè, sulla superficie lucida dello specchio verticale, non
compare la faccia di un bambino con capelli spettinati ed espressione
perplessa, delusa. Disincantata. Che mi dice di no.
No, non tu, mi dice. Non qui. Non adesso. Non ancora. Non più.
Non io.
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