martedì 18 luglio 2017

Un gesto semplice, fotografato con inquadratura dall’alto. Lei in bagno, accanto alla tinozza, osservata con la curiosità silenziosa di un bambino che ha finito i compiti. E non sa che fare. Ho sempre amato questo disperato desiderio di acciuffare l’istante. Degas. Delicato, tenero innamoramento per l’altrove.
“Ecco come vorrei costruire le inquadrature”, le dico, al bar. E le mostro contento alcuni dipinti di più di un secolo fa. Coi colori falsati da internet e dallo schermo del mio telefono.
“Non li sopporto”, dice semplicemente. Non sopporta che in tutti i quadri il volto della donna sia sempre assente. Negato. Cancellato.
E la mia delicatezza, e quella di Degas, si spogliano, si dissolvono, si sgretolano, come maschere andate a male. E mi accorgo di quanto odio, quanta aggressività, violenza avvelenata e rancorosa ci siano in quel bambino che osserva la madre fare il bagno. In quell’amante che percorre distante la schiena di una donna che ha già tradito.

E sempre, ancora una volta, sento che l’obbiettivo teso della mia macchina, il pennello morbido di Degas, il volto trasparente del mio telefono rettangolare, hanno lo stesso odore d’osso dell’arma che ho raccolto qualche milione d’anni fa, per dilaniare la natura. La mia.

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