“Perché
avete tutti così tanta paura della videocamera? Siete attori…”
L’attrice
di teatro: “Perché non ti risponde. È lì, ferma, ti punta con la sua luce
rossa. Col suo occhio. Col pubblico è diverso. C’è uno scambio, ti coinvolge, è
un rapporto vivo! La videocamera no. È ferma, meccanica, sembra morta… Eppure
sai che sta registrando tutto, tutto quello che dici, gli errori”.
“Alle
volte mi fermo a osservarvi, e rifletto sullo strano rapporto che ho con le
compagnie teatrali, quando mi capita di dover filmare l’allestimento di
rappresentazioni, come in questo caso. Mi colpisce, mi incuriosice questa
vostra condivisione del tempo, anche fuori dal palco. I mesi che trascorrete
insieme, come una famiglia, come un unico organismo che respira, che si agita
internamente, confligge, armonizza. Il mio lavoro è molto diverso. C’è una cosa
che mi è capitata molto spesso, durante la lavorazione di documentari. Faccio
riprese, accumulo materiale. Poi inizia il montaggio. E per giorni, settimane,
vedo quotidianamente un viso nello schermo, nel mio studio, in casa mia. Al
mattino, di sera. Di notte. Ne osservo le espressioni, il taglio migliore, il
modo di ridere. Cerco di inserirlo nel video che sto montando, con coerenza. Mi
abituo alla sua presenza. Diventa familiare il modo di guardare, di ascoltare l’interlocutore,
il cambio repentino dalla serietà all’allegria. I particolari del volto, delle
mani, la pettinatura. Il modo di stare seduto o seduta. Alcuni gesti furtivi,
fuggitivi.
Poi,
casualmente, improvvisamente, mi capita di incontrare lo stesso viso, vivo, per
strada, fuori dallo schermo, fuori dal mio studio, e avverto una strana
familiarità, una confidenza immediata. E il viso non mi riconosce nemmeno. Mi
guarda per un attimo, mi sente estraneo, e prosegue”.
L’attore
di teatro: “Come un innamorato non corrisposto”.
“Sì.
Forse”.
Mentre
lavorava alla sua tesi, Giovanna mi ha ricordato quella favola di Esopo, che
leggevo da piccolo, sul libro di lettura delle scuole elementari. Il leone,
ormai anziano e stanco, non è più in grado di cacciare. Lavora d’astuzia,
allora: invita gli altri animali nella sua grotta, e, quando sono lì, li
divora. Solo la volpe riesce a sottrarsi alla fame del vecchio leone: trovando
solo orme di animali che entrano nella tana, ma nessuna che ne esce, decide di
restare al di qua della soglia. E così si salva. Non so più chi abbia proposto
un’interpretazione della favola un po’ diversa da quella classica, quella che
concludeva la pagina del mio libro di lettura, elogiando l’intelligenza e
l’accortezza della volpe, che sa conservare la propria incolumità dalla minaccia
del mostro. Sì, è vero, tutti gli altri animali hanno perso se stessi,
scomparendo nel buio della grotta e nelle grandi fauci del leone. La volpe no.
La volpe è più astuta del vecchio felino. Tiene sotto controllo le tracce, le
sa intepretare, sa prevedere il rischio. Così si mantiene integra, non perde il
controllo, non si lascia assorbire dal mistero. E conserva la propria
individualità. E con questa preziosa ricchezza può continuare a muoversi, e
vagare, viaggiare da un bosco all’altro, da una comunità all’altra. Liberamente.
Sempre sveglia. Sempre cosciente.
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