Sto
lavorando a un montaggio, da qualche tempo. Ripulisco il girato, eliminando gli
errori, il superfluo, le eccedenze. Faticosamente: una sceneggiatura rigida provoca
meno languore. Non riesco a riconoscerle, le eccedenze. Come stare sulla soglia
di una città a cui abbiano abbattuto la cinta muraria, e non riuscire a
riconoscere il punto esatto in cui ha inizio e fine la campagna. Non avere
un’idea predefinita chiara, robusta, tagliente mi lascia troppa vaghezza.
Convalescenza brilla: il barista mi guarda e io non so cosa ordinare.
C’è una
scena che mi piace moltissimo. Notte. La videocamera è collocata qualche metro
dietro l’auto, sul ciglio di una strada periferica, abbastanza trafficata.
Attraverso il lunotto vedo lei, seduta accanto al conducente. Se ne coglie solo
un accenno di profilo scuro. Oltre il parabrezza sporco gli occhi delle auto,
bianchi o rossi. Lei parla. Parla, gesticola, sostiene la fronte con il braccio
sinistro, ride, si sistema una ciocca. Parla rivolta a qualcuno fuori campo,
oltre il taglio del quadro. Parla vivace. Ascolta, ogni tanto. E io so che
parlava con me, che aveva il telefono in vivavoce, sul sedile di un conducente
inesistente.
Ma ora
non ricordo più. Non ci credo più. Con chi parla? A chi rivolge lo sguardo, il
profilo? A chi regala le sue confidenze senza sonoro? La voce di chi ascolta?
La voce di chi ascoltava?
Poi
l’operatore mette a fuoco, zooma leggermente in avanti, assesta il taglio. C’è
qualcuno che osserva. Qualcuno la cui tristezza si è solidificata, rappresa, e
su quella base grigia di dolore antico ha edificato un linguaggio, un’arte, una
professione, un’identità.
E io,
dallo schermo, guardo questo professionista, questa concrezione di melanconia
dimenticata, che osserva attraverso lenti e vetri una silhouette rivolta verso
un altro. In una notte dissolta nel passato.
E poi mi
arriva un video, su WhatsApp. Una ripresa casuale fatta durante un laboratorio
di regia. Ancora notte. Macchina fissa su un locale con pareti trasparenti.
Dentro, come in un acquario, c’è un uomo con due ragazze e una donna. Si
muovono, organizzano la scena, vivacemente, percorrendo le traiettorie vitali
di una coreografia involontaria. Si indovinano voci ritmiche, decise, colorate.
Poi, dal bordo destro dell’inquadratura entra in campo un ragazzo. Lentamente
si avvicina alla parete esterna del locale. Osserva il mondo che si agita
nell’acquario. Appoggia una mano contro il vetro. Come guardasse con dolcezza
la foto della scena primaria. Accaduta chissà quando, chissà dove. Al di là di
una trasparenza impenetrabile e maledetta.
E anche
questa volta l’operatore assesta la messa a fuoco. E io so che c’è qualcuno che
spia questa disperazione, questa frattura incurabile, questo esilio senza
grazia.
I
meccanismi automatici della mia psiche mi spingono addosso al ragazzo, lo
avvolgo, lo divoro, mi lascio assorbire da lui. E con lui sento l’eco
lontanissima e irrisolvibile di un odio profondo per quel tizio che si muove
nell’acquario. Un rancore oceanico, trattenuto, per la sua barba, i ricci, i
gesti disonesti.
Intanto
ascolto Nektaria Karantzi e Vassilis Tsabropoulos suonare musica bizantina.
Voce senza luogo, imprigionata nella trasparenza di ogni vetro.
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