domenica 27 agosto 2017

Sto lavorando a un montaggio, da qualche tempo. Ripulisco il girato, eliminando gli errori, il superfluo, le eccedenze. Faticosamente: una sceneggiatura rigida provoca meno languore. Non riesco a riconoscerle, le eccedenze. Come stare sulla soglia di una città a cui abbiano abbattuto la cinta muraria, e non riuscire a riconoscere il punto esatto in cui ha inizio e fine la campagna. Non avere un’idea predefinita chiara, robusta, tagliente mi lascia troppa vaghezza. Convalescenza brilla: il barista mi guarda e io non so cosa ordinare.
C’è una scena che mi piace moltissimo. Notte. La videocamera è collocata qualche metro dietro l’auto, sul ciglio di una strada periferica, abbastanza trafficata. Attraverso il lunotto vedo lei, seduta accanto al conducente. Se ne coglie solo un accenno di profilo scuro. Oltre il parabrezza sporco gli occhi delle auto, bianchi o rossi. Lei parla. Parla, gesticola, sostiene la fronte con il braccio sinistro, ride, si sistema una ciocca. Parla rivolta a qualcuno fuori campo, oltre il taglio del quadro. Parla vivace. Ascolta, ogni tanto. E io so che parlava con me, che aveva il telefono in vivavoce, sul sedile di un conducente inesistente.
Ma ora non ricordo più. Non ci credo più. Con chi parla? A chi rivolge lo sguardo, il profilo? A chi regala le sue confidenze senza sonoro? La voce di chi ascolta? La voce di chi ascoltava?
Poi l’operatore mette a fuoco, zooma leggermente in avanti, assesta il taglio. C’è qualcuno che osserva. Qualcuno la cui tristezza si è solidificata, rappresa, e su quella base grigia di dolore antico ha edificato un linguaggio, un’arte, una professione, un’identità.
E io, dallo schermo, guardo questo professionista, questa concrezione di melanconia dimenticata, che osserva attraverso lenti e vetri una silhouette rivolta verso un altro. In una notte dissolta nel passato.
E poi mi arriva un video, su WhatsApp. Una ripresa casuale fatta durante un laboratorio di regia. Ancora notte. Macchina fissa su un locale con pareti trasparenti. Dentro, come in un acquario, c’è un uomo con due ragazze e una donna. Si muovono, organizzano la scena, vivacemente, percorrendo le traiettorie vitali di una coreografia involontaria. Si indovinano voci ritmiche, decise, colorate. Poi, dal bordo destro dell’inquadratura entra in campo un ragazzo. Lentamente si avvicina alla parete esterna del locale. Osserva il mondo che si agita nell’acquario. Appoggia una mano contro il vetro. Come guardasse con dolcezza la foto della scena primaria. Accaduta chissà quando, chissà dove. Al di là di una trasparenza impenetrabile e maledetta.
E anche questa volta l’operatore assesta la messa a fuoco. E io so che c’è qualcuno che spia questa disperazione, questa frattura incurabile, questo esilio senza grazia.
I meccanismi automatici della mia psiche mi spingono addosso al ragazzo, lo avvolgo, lo divoro, mi lascio assorbire da lui. E con lui sento l’eco lontanissima e irrisolvibile di un odio profondo per quel tizio che si muove nell’acquario. Un rancore oceanico, trattenuto, per la sua barba, i ricci, i gesti disonesti.

Intanto ascolto Nektaria Karantzi e Vassilis Tsabropoulos suonare musica bizantina. Voce senza luogo, imprigionata nella trasparenza di ogni vetro.

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