Esempio
1. Il percorso dall’auto parcheggiata fino alla piazza dura circa otto minuti.
Un cortometraggio. Una narrazione che si dispiega come una lunga soggettiva
fluida, ruffiana. E il regista fa pulsare il racconto, alterna piani più ampi a
dettagli riflessivi. L’espressione intontita e meravigliata di un anziano fuori
dal bar. La schiena rossa lontana di una ragazza che si sporge dal parapetto di
una terrazza mistica. La strada lunga, irregolare, e le formiche fantasma che
la percorrono ordinate, pensose. Un ragazzo africano mi taglia la strada, mi
sorride. Come fosse amicizia. E invece è una transazione commerciale: dopo una
ventina di secondi lui va via con due euro, io con la conferma di appartenere
alla categoria degli europei generosi. L’incontro è durato il tempo necessario.
Come un’inquadratura di un western di
Ford. Come lo sguardo sul deserto nord-americano o su un gruppetto di Apache
pennuti. Il ritmo della narrazione prosegue fluido, vivace, armonico, coerente:
i selvaggi di Ford hanno assolto la loro funzione e scompaiono, divorati dalla
grande catena di montaggio dello sviluppo drammatico del film. Il ragazzo
africano ha assolto la sua funzione di breve pausa nel mio percorso lineare
fino alla piazza. Una digressione nella narrazione. Digressione solo apparente,
però, se serve a definire la fisionomia caratteriale del protagonista: civile,
disinvolto, disponibile a rallentare la marcia. Nell’economia del
cortometraggio questo calo di ritmo è necessario, come in una sinfonia – una
composizione di immagini orchestrata con mestiere dal regista e dal montatore:
dettaglio sul viso dell’anziano davanti al bar; campo lungo con ragazza lontana
di schiena; breve dialogo affettuoso e aperto con il ragazzo di colore; campo
lungo, dinamizzato dalle formiche pensose che percorrono la via; primo piano in
movimento di un passante che saluta guardando in macchina; sampietrini, nuvole
sporche, sonoro confuso, ma ben distribuito. Il film funziona. Il treno
viaggia.
Esempio
2. Davanti alla caffetteria. Ascolto il ragazzo senegalese parlare con me e
Giovanna. Parla a lungo, spiega, chiarisce, cerca i termini giusti. La sua voce
cammina su una strada dissestata, piena di buche e crepe. Racconta di un
fratello che vive in un’altra città. Lascia il discorso sospeso, lo aggancia a
un altro che riguarda la sua famiglia che sta in Africa. E poi il suo orgoglio
che gli impedisce di tornare in Senegal senza essere riuscito a mettere da
parte qualcosa. E la necessità di aspettare ancora, prima di costruire una
nuova famiglia, aspettare una solidità e un’autonomia economica che – dice –
sta per arrivare. Progetta. Concretamente. Non sogna, progetta. E si dilunga.
Ora il racconto si è spostato sui suoi problemi di stomaco, descrive i sintomi
di una gastrite misteriosa che non riesce a curarsi da un anno, e l’ostilità
professionale di medici – i pronipoti del migliore Illuminismo europeo. Io mi
distraggo. Zoomo sul dettaglio della sua barba scurissima, poco fitta. Poi sul
bianco eccezionale della sclera e dei denti. Ma il ritmo narrativo non regge.
Mi volto, come da bambino mi voltavo quando mio padre parlava a lungo coi
colleghi di lavoro, in pretura. E cerco passanti, giro intorno lo sguardo,
fotografo il cielo, la facciata della chiesa, il culo del bus che arriva in
piazza. E poi torno a incrociare lo sguardo del ragazzo, annuisco per far
capire che sono attento, presente, accogliente. Come facevo a scuola, durante
la spiegazione di Chimica. Il film va avanti da tre quarti d’ora. Non so dove
porta, non ricordo da dove è partito. Non ricordo le informazioni che mi sono
arrivate. E non capisco quale siano utili, quali superflue. Non riconosco il
genere. Poi il film finisce e il ragazzo ci stringe la mano. Io ricambio la
stretta con energia, perché lui senta che ci sono – tanto la campana è suonata,
e non c’è alcun rischio che l’insegnante mi rivolga qualche domanda e scopra
quanti frammenti del suo racconto, quanti dettagli della sua vita sono stati
inghiottiti dall’imbuto che porta all’oblio. All’inconscio. Si allontana.
Giovanna entra in caffetteria, io resto fuori. Imbraccio di nuovo la mia videocamera
invisibile e riprendo a raccogliere e mettere da parte i dettagli della città. E
dopo qualche minuto, mi ritrovo a inquadrare la schiena del ragazzo che si
muove lento, verso la piazza. Non stacco. Tengo l’inquadratura lunga su di lui.
Lo vedo avvicinarsi a un tizio che cammina frettoloso, mostrargli i suoi libri,
ma l’altro lo dribbla con sorriso ironico e strizzata d’occhio. Non stacco
ancora, continuo a seguirlo. Lui resta sospeso, cammina ciondolante. Si fa più
piccolo nell’inquadratura, mentre cerca qualcun altro a cui offrire i suoi
libri, qualcun altro con cui tentare una transazione economica. Un gruppetto di
tre studenti gli passa accanto, lui sorride, uno dei tre gli dà il cinque. E
basta, non guadagna altro che quel battito di mano all’americana. Poi il
gruppetto prosegue, e il ragazzo si trova di nuovo solo, si muove in modo
irregolare sulla superficie di questo lago, di questo stagno di civiltà. Ed è
sempre più piccolo nell’inquadratura, il campo è sempre più lungo. Sempre più
figure si interpongono tra il mio occhio e la sua schiena, ma cerco di tenere a
fuoco lui. E ancora si avvicina a un passante coi suoi libri, e anche stavolta non
incassa altro che un sorriso e tre parole in fuga. L’inquadratura si è già
fatta insopportabile, non riesco a sostenerla. Non riesco a digerire questo
tempo dilatato, questi tre o quattro minuti di vita di un personaggio che passa
da un rifiuto all’altro, che naviga senza remi, su una delle lance del Titanic,
sospesa su un mare calmo e civile. Con il rischio costante di morire di
ipotermia. E questo piano-sequenza va avanti da anni e proseguirà per altri
anni ancora, finché forse il ragazzo non riuscirà a trovare stabilità e
autonomia, e potrà avere una donna e una famiglia, e tornare in Africa senza
vergogna – in vacanza, magari, o definitivamente. E sento il bisogno di
Hollywood, del montaggio all’americana, rapido, levigato, ritmico,
spettacolare: sento il bisogno pungente del selvaggio che compare solo per
pochi secondi, in una sparatoria o in un’inquadratura descrittiva, per il tempo
necessario a far proseguire il treno della narrazione. Il treno che macina chilometri
e secoli di progresso, e che, coi suoi finestrini robusti e trasparenti, mi
protegge dal malessere, dall’angoscia. Dalla profondità.
Una
semplice dilatazione temporale, seppur breve, può permettere l’affiorare di
verità che altrimenti restano nascoste, diceva Zavattini. Ci rifletto per
alcuni secondi.
Poi
Giovanna esce dalla caffetteria. Spengo la videocamera e mi allontano con lei.
E il ragazzo esce fuori campo.
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