Un gesto
semplice, fotografato con inquadratura dall’alto. Lei in bagno, accanto alla
tinozza, osservata con la curiosità silenziosa di un bambino che ha finito i
compiti. E non sa che fare. Ho sempre amato questo disperato desiderio di
acciuffare l’istante. Degas. Delicato, tenero innamoramento per l’altrove.
“Ecco
come vorrei costruire le inquadrature”, le dico, al bar. E le mostro contento alcuni
dipinti di più di un secolo fa. Coi colori falsati da internet e dallo schermo
del mio telefono.
“Non li
sopporto”, dice semplicemente. Non sopporta che in tutti i quadri il volto
della donna sia sempre assente. Negato. Cancellato.
E la mia
delicatezza, e quella di Degas, si spogliano, si dissolvono, si sgretolano,
come maschere andate a male. E mi accorgo di quanto odio, quanta aggressività,
violenza avvelenata e rancorosa ci siano in quel bambino che osserva la madre
fare il bagno. In quell’amante che percorre distante la schiena di una donna
che ha già tradito.
E sempre,
ancora una volta, sento che l’obbiettivo teso della mia macchina, il
pennello morbido di Degas, il volto trasparente del mio telefono rettangolare, hanno
lo stesso odore d’osso dell’arma che ho raccolto qualche milione d’anni fa, per
dilaniare la natura. La mia.
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