lunedì 1 dicembre 2014

Autunno. Nel rettangolo del computer ho decine di immagini da montare. Solo una successione confusa, caotica di inquadrature. Senza senso. Senza direzione. Inorganiche. Il senso, se c’era, è andato via, come i colori desaturati di novembre. Come il cielo omogeneo alla finestra, che mi ricorda l’impersonalità spaventosa della costa occidentale inglese.
È terribile questa impossibilità a trovare un contatto, iniettare la vita in una serie di fotogrammi meccanici, astratti, slegati, estranei. E farne corpo vivo, farne una sequenza, vedere germogliare una musica, un ritmo.
Voglio fuggire, distrarmi, voltare lo sguardo di fronte ai pezzi mal composti di questo mostro di Frankenstein esanime. Non riesco a stare sulla sedia. Come di fronte al silenzio di cemento di un telefono che non squilla, di una lettera che non arriva. Ineluttabile e regolare come il corvo di Poe. Fuga, fuga. Qualsiasi luogo è meglio che stare qui. Andare a bere un bicchier d’acqua, prepararmi un tè, controllare la posta, guardare fuori dalla finestra. Gettarmi giù dalla finestra.
No. Devo restare.
Non provo mai a restare, a sopportare la pressione soffocante di questo campo magnetico, di questa assenza, di questo dio decapitato, in decomposizione. E provare e riprovare a montare, accostare le immagini l’una all’altra, aspettando un motivo, aspettando che la mano del mostro si muova, aspettando che la fiamma ingiallisca da sola, senza che io continui a buttare carta nel camino. Provare a tenere in bocca il veleno. Provare a ingoiare.
Sì. Prima o poi una direzione arriverà. Prima o poi troverò un senso. Riconoscerò la complessità bella e variopinta di questo cielo grigio. E gli dirò di sì. E le dirò di sì. Come uno sposo ubriaco.

Ma per ora, mentre aspetto, com’è dolce abbandonarsi alla melodia maledetta e seducente che mi invita a spegnermi.

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