Nei Quartieri Spagnoli di Napoli. Il pullulare di una
vegetazione tropicale, il sottobosco incontrollato d’Europa. Inconscio.
Inconsapevole. Non è cresciuto nelle zone periferiche, ma nel cuore della
città, a pochi passi dai mattoni regolari dei palazzi signorili. Li attraverso.
Ne attraverso la confidenza. Un po’ Roma, un po’ Palermo, Maghreb, Sarajevo,
Tor S. Lorenzo. Ma il volto appuntito e legnoso di questi personaggi ha
qualcosa di diverso dalla spocchia romana. Non c’è il dominio, l’abitudine a
comandare. C’è qualcosa di familiare e diffidente nella loro postura, nella
velocità degli occhi. C’è la consuetudine a muoversi a margine, di aggirare lo
stato. “Una sacca impermeabile al progresso”, la chiamava Pasolini. Al solito
provo vergogna a fotografarli, a catturare i contrasti, le mura scorticate, i
rigagnoli d’acqua tra i sampietrini, la foto ritoccata di un ragazzo morto
chissà come e chissà quando.
Una ragazza molto bella, bruna, in attesa, davanti a un portone,
fuma, con il corpo che disegna un arco teso, una minaccia sensuale. Si accorge
che la osservo e non mi ricambia lo sguardo, come volesse mandarmi a fare in
culo. Mi sento un po’ poliziotto, un po’ esattore delle tasse. In cima ad un
vicolo stretto, confuso, umido punto il cellulare per fermare un’immagine.
Cerco di fare in fretta per acchiappare il bambino in quella posizione
plastica, vicino al muro poroso, con in mano una strana croce di ferro
arrugginito. Scatto due o tre volte. Poi lo sento urlare “Grazie!”. Mentre mi
passa accanto gli dico “Ma perché, ti eri messo in posa?”. Mi risponde di sì.
Bravo. Bello schiaffo alla mia estraneità, alla non-appartenenza. Non c’è
niente da fare: ti illudi di essere sceso all’inferno armato del falcetto tagliente
della macchina da presa, ma lo schermo è troppo spesso. E anche un bambino ti
riconosce. Come quando, da piccolo, vivevo in Calabria, a poche centinaia di
metri dalle case popolari, con le porte sempre aperte, e i ragazzini con la
pianta dei piedi nera, accovacciati per terra. Se attraversavo quelle strade, o
se parlavo, si capiva immediatamente che non ero di là, che venivo da fuori,
che non ero uno di loro. E io stesso parlavo ascoltandomi la voce, dubitando
del mio italiano sospetto, fuori luogo. Come fossi già al di qua di uno
schermo.
Dalla casa in affitto, qui, vicino Sorrento, si vede il
piccolo golfo, e le imbarcazioni ancorate nel mare sereno, rasserenante. Non si
sentono rumori, fuorché il soffiare continuo di un vento mediterraneo. Alcune
barche a motore attraversano l’acqua, seguono percorsi regolari, geometrici. Si
incrociano coreografiche, con i loro movimenti indolori, silenziosi. Sembra di
osservare dall’alto il ricamo narrativo di una narrazione, la tessitura
astratta della vita. Senza coinvolgersi, senza toccare. Un’esistenza virtuale,
distante. Ideale. Cinematografica.
Al mare, su una bellissima, piccola spiaggia aperta tra gli
scogli. Bello distendersi sulla pelle salata di quest’acqua scura, tragica.
Mette appetito. Viene voglia di divorare i sassi e la parete rocciosa e la
sabbia impastata dalla mano delle onde. Mi metto a sedere su uno scoglio. Il
mare penetra ruggendo in una fenditura stretta, tra una pietra e l’altra. E si
lamenta, ringhia e schiuma. Non riesco a immaginare niente di più erotico di
quest’acqua feroce e ipnotica che abbraccia e modella la roccia. Ogni onda
l’aggredisce e poi la lascia andare. Studio le tracce di questo amore che va
avanti da millenni, le rughe degli scogli, i tagli verticali. Le riprese e gli
abbandoni.
Compare una signora con un costume intero. Avrà sessant’anni.
Si muove a fatica nell’acqua. Peserà novanta chili, almeno. Può essere tedesca
o napoletana, non lo so. Appoggia le pinne sul mio scoglio. Io la seguo con lo
sguardo. Muovo solo gli occhi, immobile e ostile come un Sioux. Non mi nota,
non si accorge nemmeno della mia presenza. Non mi vuole ignorare: semplicemente
non mi ha visto. Che bel regalo! Il colore della mia carnagione si è confuso
con quello della roccia chiara. Sono stato divorato dallo sfondo. Una volta
tanto posso immaginare di essere io il paesaggio, e non l’osservatore…
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