lunedì 28 luglio 2014


Il cinema è violenza esercitata sulla natura.
Il cinema è innamoramento e volontà di possesso. Febbrile impazienza, sindrome da abbandono che toglie lucidità, che dispera e non si accontenta che lei esista. Ma vuole imprigionarla. Vuole immortalarne la bellezza, rinchiuderla nell’ottusa infanzia di un rettangolo.
Chissà se è stato un Abilis o un Erectus o un Sapiens il primo a trasformare il bastone in pennello. L’uccisione della preda moltiplicata indefinitamente per mezzo dell’arte.  Senza sapere che la vita finiva lì, che dietro il desiderio di possesso c’è la sospensione della vita, c’è lo sguardo alienato del medico di Ceylan che osserva i bambini giocare attraverso la finestra.
Non è un caso che il cinema appena nato abbia filmato il treno, il trionfo dell’uomo borghese sullo spazio-tempo, la strada ferrata e artificiale che divora la natura. Che strangola la bellezza del viaggio, della distrazione. Dal finestrino del treno tutto fluisce omogeneo, senza odore, senza identità. Solo le sfumature estetizzanti della non-appartenenza. Solo il gusto compiaciuto di un Don Giovanni che assapora mille aperitivi, senza mai sedersi a tavola, senza mai compromettersi.
Sulla strada che taglia a metà il quartiere Ponte Armellina, a Urbino, alle sette di sera. Estate. Profondità di campo narrativa: ci sono almeno cinque piani compresenti, che interagiscono tra loro, in profondità. A pochi metri dal mio occhio alcuni bambini, seduti sul marciapiede, disegnano. Poco più avanti, altri si muovono in bicicletta. A metà della strada un uomo di trent’anni circa, appoggiato al recinto di una casa, e ai suoi piedi suo figlio di pochi anni, inginocchiato sull’asfalto. In lontananza, un gruppetto di ragazzi chiacchiera intorno alla mia auto parcheggiata. In fondo, le silhouettes di alcuni uomini e di una giovane donna con un passeggino. Cerco di riprendere questo racconto che si dispiega in avanti, che approfondisce la prospettiva. Un racconto che prolunga l’inquadratura, che le impedisce di risolversi in quella successiva. Perché non c’è azione. È la sosta del treno. E provo a fermarla, a catturarla, da buon borghese. Non mi riesce. Filmo molte volte questa strada, senza riuscire ad acchiappare questa lontananza, e le tante età dell’uomo che si distendono lungo la via.
È un’immagine rara. Se mi fermo a osservare le vie lunghe e affollate di una città qualsiasi, sia pure un piccolo paese di provincia, raramente vedo gruppi fermi, adagiati nella vasca del tempo che passa lentamente. In genere ci sono schiene che si allontanano e visi che s’ingrandiscono. Tutti camminano.
Ne parlo con un amico. Mi cita un alcuni film degli ultimi anni che hanno sequenze simili. Quei film che provano a riesumare il cadavere del fantasma del Neorealismo. Dove anche lo sporco sulle gambe degli attori recita male. Sì è vero, qualche somiglianza c’è. E questo significa forse che il sistema si è appropriato di questa bellezza, e che il mio modo di guardare e di innamorarmi, la mia meraviglia di fronte a quest’immagine è figlia del sistema, è un fac-simile partorito da un fantasma.
Riuscire a sopportare che lei guardi fuori campo, altrove, che non sia lei. Che metà del viso stia in campo e il resto sfumi fuori dal rettangolo. Ripresa con macchina fissa, per simulare rispetto. Per  illudersi di non volerla uccidere.


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