sabato 14 giugno 2014

I piccoli centri hanno un doppiofondo. Osservando da vicino i contorni delle cose, se ne coglie un riverbero, come oggetti disegnati da un astigmatico.
Questo piccolo paese, quasi deserto per gran parte dell’anno, sembra collocato in quegli angoli di casa dove non arriva l’aspirapolvere. Gli anziani seduti sulle sedie di legno, sulle panchine, con le camicie abbottonate fino al collo, le giacche appassite, lo sguardo che gira lentamente intorno, a sorvegliare che il tempo non passi. Tutto sembra così familiare, confidenziale. Prossimo, domestico. Sembra così ovvio che una ragazza si senta chiamare da altrove, che soffra di claustrofobia, di mal d'Africa. Come si fa a vivere un’intera vita tra la cucina e il pianerottolo di casa, senza desiderare l’anonimato di Parigi? Senza ingoiare silenziosamente il desiderio feroce di incontrare sconosciuti, estranei, di smarrirsi in una metropoli…
Eppure questi luoghi sono straordinariamente filosofici, le immagini possiedono un livello di equivocità che in nessuna città riesco a sentire. Oggi pomeriggio camminavo con Lorenzo, che fra un paio di mesi compirà dieci anni. Alle tre le strade erano vuote. Questo tessuto di vie perpendicolari, di case bianche, spagnole, greche, borboniche, maghrebine. Tutto era ripulito e complicato dal vento, e le bandiere dei mondiali di calcio riempivano il cielo bianco della controra, scenografia di una festa dove gli invitati non sono ancora arrivati, o sono andati tutti via. Le vie qui sono lunghe, dritte, si riesce a vedere molto lontano. Gli oggetti sembrano sempre inquadrati con un teleobiettivo, schiacciati contro uno sfondo distante, sgranato. Lorenzo camminava guardando in basso, in silenzio, con un passo pieno di eroismo immaginario. Ogni immagine che attraversavamo era piena di una bellissima doppiezza, di un’ambiguità seducente: vicina, quotidiana, tangibile, e proiettata verso l’infinito. Come in Heremakono di Sissako, dove basta una finestra aperta, sul bordo destro dell’inquadratura, a riempire di interminati spazi una piccola stanza. A riempire di profondissimo deserto un gesto usuale, monotono. Dettagli stretti e campi lunghissimi.

La stessa cosa accade a Urbino, nel tardo pomeriggio estivo. Se ti allontani dalla piazza, e superi il teatro, puoi vedere una ragazza chiacchierare al telefono, appoggiata a un muretto qualunque, proiettata contro l’azzurro lontano degli Appennini. E allora, qualche volta, ho pensato che ha ragione Renoir a immaginare che, forse, gli ultimi dinosauri siano morti senza resistere.

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