L’amour fou di Rivette. La bellezza di uno sguardo indefinitamente ampio,
continuo, duraturo. Guardando il film ho l’impressione che la materia di cui è
composta l’immagine sia eccezionalmente densa, e che, se provassi a ritagliarne
ed ingrandirne una porzione, questa densità non si ridurrebbe, non mi troverei
di fronte alla rarefazione della grana o dei pixel. Che strano che qualche
decennio fa film di questa portata fossero prodotti e distribuiti. E che
potessero anche dialogare con un pubblico, sia pure molto selezionato. Quattro
ore di piani-sequenza, sospensioni narrative (apparenti), battute mormorate con
poca enfasi, universo sonoro ruvido, ricchissimo, disperso. In un minuto di
film ci sono almeno quaranta secondi che un produttore condannerebbe come tempi
morti; e, più in generale, l’intera architettura drammatica del montaggio
sarebbe giudicata inefficace, debole, inadeguata a definire con chiarezza i
personaggi e lo sviluppo della trama. L’occhio si è impigrito.
Tempo fa in TV, su Rai Storia, hanno riproposto un programma
di fine anni ’70, Viaggio in seconda
classe, di Nanni Loy, una sorta di candid camera seria che si svolgeva
nello scompartimento di un treno. Il regista prendeva a chiacchierare con
l’inconsapevole compagno di viaggio, e l’operatore, nascosto nello
scompartimento adiacente, riprendeva tutto. Non c’erano molti tagli nel filmato
che veniva presentato ai telespettatori. Tempi lunghi, pochi zoom narrativi.
L’argomento della discussione aveva lo stesso ritmo delle chiacchiere che si
scambiano con uno sconosciuto su un treno: dialogo abbastanza frammentato,
discorsi iniziati e lasciati a metà, lunghi momenti di silenzio, riflessioni
mormorate con confidenza indolente. Sonoro magnifico: si capisce molto poco!
Loy era costretto a ripetere con voce da sordo le battute dell’interlocutore
che rischiavano di disperdersi nel rumore del treno. Le tracce dell’Italia di
quegli anni si leggono proprio nei tempi morti, nei momenti stanchi in cui
l’argomento sfuma, e l’anziano accanto al regista guarda fuori dal finestrino,
si aggiusta il cappello o muove la mano come un vecchio bambino. Come facevano
i telespettatori del tempo a seguire un programma così? Così dilatato. Così
poco confezionato. Perché l’orecchio riusciva a decifrare un sonoro così poco ripulito?
Perché l’occhio coglieva particolari che occupavano un piccola parte dello
schermo, senza un’inquadratura dettaglio che ne esaltasse le dimensioni e il
significato?
Quando ho visto per la prima volta La grande illusion, mi ha colpito molto la scena del prigioniero
inglese che si traveste da donna: il piano-sequenza che descrive il silenzio
improvviso dei compagni di prigionia è davvero una delle inquadrature più belle
della storia del cinema. Non ho rivisto il film per molti anni, ma ho
conservato nella memoria un’immagine molto netta, forte di quella sequenza,
come fosse il passaggio più emozionante di un brano musicale. Poco tempo fa
l’ho riguardata e sono rimasto sorpreso dalla leggerezza con cui è girata:
senza accenti, senza indugiare sulla simmetria dell’inquadratura, senza
sottolineare il significato profondo dell’immagine. Non la ricordavo così. Sembra
una scena di passaggio, buttata lì con la spensieratezza gioconda con cui
Renoir trattava il tragico. Chissà come reagirebbe il pubblico di adesso... E
chissà se io stesso avrei la reazione emotiva che ho avuto quindici anni fa… Se
la mia memoria ha ricostruito l’immagine con un condimento più ricco,
aggiungendo esaltatori di sapidità – me la ricordavo più contrastata, più
lunga, più espressionista –, significa che le mie richieste di spettatore si
sono aggiornate, ho esigenze diverse, ho bisogno di stimoli più decisi, più
espliciti, di sapori più forti. Un po’ come succede nelle sequenze conclusive
dei film d’azione americani: negli anni ’60 il cattivo moriva schiantandosi con
la sua auto fuori strada; qualche anno dopo la macchina, nel giro di pochi
secondi, andava a fuoco; nei film contemporanei esplode non appena si verifica
l’impatto, come fosse imbottita di nitroglicerina. Al di là del problema
dell’inverosimiglianza, è evidente che le richieste dello spettatore hanno
subito una modifica (insieme attiva e passiva), e la spettacolarità dello
schianto di un’auto non basta più a soddisfare le aspettative del pubblico.
Forse si dovrebbe approfondire il fenomeno della noia: cos’è
che annoia? Perché, in alcune situazioni, si innesca (volontariamente credo)
questo meccanismo che chiamiamo noia? Un meccanismo difensivo, probabilmente.
Stamattina, scorrendo le notizie on-line, a proposito del
maltempo di questi giorni, uno dei titoli annunciava “Bomba d’acqua nel Centro
Italia!”. Ovviamente occhio e orecchio sono automaticamente scossi dal termine
“bomba”, e dalla pluralità di direzioni ed associazioni che la parola evoca:
esplosione, attentato, minaccia, morte, pericolo, terrorismo, etc. Eppure io
non ho avuto (in apparenza) una reazione particolarmente agitata. Probabilmente
sono scattati i meccanismi di difesa che inibiscono la mia sensibilità, la mia
reattività. Perché io venga eccitato dall’informazione è necessario qualcosa di
diverso, qualcosa in più, qualcosa che sia in grado di aggirare i miei
anticorpi.
Il problema si fa più evidente quando occhio e orecchio si
confrontano con il mondo senza la mediazione di uno schermo. O, per essere più
precisi, quando lo schermo che ci separa/congiunge dalla realtà raggiunge un
livello molto alto di trasparenza, e io ne dimentico la presenza, la
mediazione. Come togliere gli occhiali e mettere le lenti a contatto. Il
bisogno di attenzione, le aspettative, le richieste narrative che rivolgo alla
realtà che osservo dalla finestra si fanno più implicite, più silenziose.
Clamorosamente silenziose. E io continuo a comportarmi come un bimbo di 37 anni
che non è ancora uscito dal box, ma che è convinto di essere adulto.
Qualcuno mi raccontava, tempo fa, di aver fatto un viaggio in
Polonia, con un gruppo di amici, e di aver visitato il campo di Birkenau. Uno
dei compagni, alcuni mesi dopo, gli aveva confessato di non aver provato
particolare emozione, durante la visita: pareti, pavimenti, porte, travi,
legno, cemento, metallo. Non aveva trovato niente di straordinario in questi
oggetti, in questi materiali. Al ritorno in Italia, però, aveva rivisto quei
luoghi in un documentario. E allora sì, si era commosso.
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