venerdì 1 novembre 2013

Lunedì pomeriggio sono stato per la prima volta nel quartiere di Ponte Armellina, quel ritaglio di Urbino dove vivono gli immigrati. È chiamato anche Urbino 2. Dovrò tenere un laboratorio di cinema per gli adolescenti che risiedono lì, ma è previsto che partecipino anche ragazzi italiani. Il progetto include anche la realizzazione di un documentario, e io ho cominciato già da tempo a ragionarci su. Non trovo ancora la via, però.
Più che di un vero e proprio quartiere, si tratta di due o tre edifici raccolti insieme, con decine di appartamenti. Gli abbiamo girato intorno con la macchina, e poi siamo entrati nella parte interna, quella racchiusa dai palazzi. Il modo in cui il quartiere è disegnato insiste sul carattere isolato, apparentemente autosufficiente del luogo. Una piccola comunità – più o meno omogenea – a cui è stata assegnata una porzione di spazio separata. I ragazzi di Urbino con cui ho parlato del progetto non conoscevano nemmeno l’esistenza di questo luogo: la campagna che circonda Ponte Armellina svolge efficacemente la sua funzione isolante.
Gli edifici non sono molto belli da vedere, e non sono riuscito a indovinarne l’età. I muri sono scorticati, inumiditi, opachi. Mi ricordano alcuni quartieri di Roma, quelli più disagiati, ma con un’atmosfera meno alienante, meno drammatica. O anche alcune vie di Pomezia – via Singen, via Catullo -, lì dove, tra noi compagni delle scuole medie, si diceva di non passare, per evitare problemi.
Lunedì pioveva, e il paesaggio era ancora meno brillante.
Siamo entrati in uno dei portoni, per visitare il centro di aggregazione destinato a bambini e a ragazzini. La responsabile, per aprire la porta del centro, ha dovuto spostare gli stendini pieni di panni stesi dalle famiglie che vivono nei vari appartamenti, lì al piano terra. Chissà com’è l’atmosfera in estate, col bel tempo…
Mentre camminavamo sulle strade che dividono i due o tre edifici, cercando di evitare le pozzanghere, mi immaginavo con la videocamera in mano, già al lavoro con le riprese. E il cielo si è rabbuiato ulteriormente. Come faccio a filmare questa gente, questi luoghi? Una donna ha aperto la porta di casa, in pantofole. Dentro si sentiva un bambino reclamare in lungua araba (credo…) qualcosa ad alta voce. La donna ci ha studiato per un attimo, poi ci siamo scambiati un saluto rapido. Come faccio a riprenderla? Come faccio a puntargli addosso la videocamera senza che divenga clamorosamente esplicito lo spirito paternalistico che pervade il mio gesto, il mio lavoro? Non mi sembra possibile evitare che ogni inquadratura sia effettuata dall’alto, con l’estraneità incuriosita di Darwin che si aggira nelle Galapagos per studiarne flora e fauna. Non mi piace.
Qualche tempo fa ho visto Sacro GRA, e la macchina da presa mi è parsa davvero poco affettuosa nei confronti di ciò che riprendeva. Invadente, impicciona, inopportuna come l’occhio della televisione.
Alle volte immagino di fare solo riprese audio, di nascosto, e poi montare esclusivamente il sonoro sullo schermo nero. Però non si tratterebbe di una scelta estetica (peraltro già fatta da altri…), ma di una semplice scorciatoia presa per aggirare il pudore e il senso di colpa.


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