Lunedì pomeriggio sono stato per la prima volta nel quartiere
di Ponte Armellina, quel ritaglio di Urbino dove vivono gli immigrati. È
chiamato anche Urbino 2. Dovrò tenere un laboratorio di cinema per gli
adolescenti che risiedono lì, ma è previsto che partecipino anche ragazzi
italiani. Il progetto include anche la realizzazione di un documentario, e io
ho cominciato già da tempo a ragionarci su. Non trovo ancora la via, però.
Più che di un vero e proprio quartiere, si tratta di due o tre
edifici raccolti insieme, con decine di appartamenti. Gli abbiamo girato
intorno con la macchina, e poi siamo entrati nella parte interna, quella
racchiusa dai palazzi. Il modo in cui il quartiere è disegnato insiste sul
carattere isolato, apparentemente autosufficiente del luogo. Una piccola
comunità – più o meno omogenea – a cui è stata assegnata una porzione di spazio
separata. I ragazzi di Urbino con cui ho parlato del progetto non conoscevano
nemmeno l’esistenza di questo luogo: la campagna che circonda Ponte Armellina
svolge efficacemente la sua funzione isolante.
Gli edifici non sono molto belli da vedere, e non sono
riuscito a indovinarne l’età. I muri sono scorticati, inumiditi, opachi. Mi
ricordano alcuni quartieri di Roma, quelli più disagiati, ma con un’atmosfera
meno alienante, meno drammatica. O anche alcune vie di Pomezia – via Singen,
via Catullo -, lì dove, tra noi compagni delle scuole medie, si diceva di non
passare, per evitare problemi.
Lunedì pioveva, e il paesaggio era ancora meno brillante.
Siamo entrati in uno dei portoni, per visitare il centro di
aggregazione destinato a bambini e a ragazzini. La responsabile, per aprire la
porta del centro, ha dovuto spostare gli stendini pieni di panni stesi dalle
famiglie che vivono nei vari appartamenti, lì al piano terra. Chissà com’è
l’atmosfera in estate, col bel tempo…
Mentre camminavamo sulle strade che dividono i due o tre
edifici, cercando di evitare le pozzanghere, mi immaginavo con la videocamera
in mano, già al lavoro con le riprese. E il cielo si è rabbuiato ulteriormente.
Come faccio a filmare questa gente, questi luoghi? Una donna ha aperto la porta
di casa, in pantofole. Dentro si sentiva un bambino reclamare in lungua araba
(credo…) qualcosa ad alta voce. La donna ci ha studiato per un attimo, poi ci
siamo scambiati un saluto rapido. Come faccio a riprenderla? Come faccio a
puntargli addosso la videocamera senza che divenga clamorosamente esplicito lo
spirito paternalistico che pervade il mio gesto, il mio lavoro? Non mi sembra
possibile evitare che ogni inquadratura sia effettuata dall’alto, con
l’estraneità incuriosita di Darwin che si aggira nelle Galapagos per studiarne
flora e fauna. Non mi piace.
Qualche tempo fa ho visto Sacro
GRA, e la macchina da presa mi è parsa davvero poco affettuosa nei confronti
di ciò che riprendeva. Invadente, impicciona, inopportuna come l’occhio della
televisione.
Alle volte immagino di fare solo riprese audio, di nascosto, e
poi montare esclusivamente il sonoro sullo schermo nero. Però non si
tratterebbe di una scelta estetica (peraltro già fatta da altri…), ma di una
semplice scorciatoia presa per aggirare il pudore e il senso di colpa.
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