lunedì 26 agosto 2013

Cammino per le strade dei piccoli centri abitati pugliesi, e al solito rimpiango di non avere un videocamera con me, immagino movimenti laterali, sequenze, documentari. Gli anziani in canottiera seduti fuori dalla porta, fermi lì da secoli, i tronchi rugosi degli ulivi, le case bianche col tetto piatto - spagnole, greche, abbaglianti. I muri scorticati, la pavimentazione in marmo delle vie. La carnagione scura di bambine in bicicletta, familiari, esotiche. Inquadrature semplici, silenziose, discrete, registrare figure che toccano le corde della memoria, della mia memoria. Da anni, percorrendo i vicoli di San Paolo, progetto di dedicare alcuni minuti di un film a queste strade dalla geometria improvvisata. Affollate e sempre deserte. Mentre ci muoviamo dalla piazza verso casa vedo una donna che viene verso di noi. Si trova a circa trecento metri. L’immagine è molto bella. Andrebbe ripresa da lontano, stringendo su di lei, schiacciandola sullo sfondo sfocato dei panni che festeggiano in cielo, delle finestre basse, del bianco luminoso dei muri. Cammina verso di noi guardando in basso, con una borsa di plastica in mano. Bello.
Perché bello? Perché mi pare che l’immagine sia così cinematografica? Sembra davvero che il contatto tra il mio occhio e il movimento della donna, dei panni, del vento sia eccezionalmente armonico. Così integrato da richiedere di essere catturato e riprodotto. Un piacere da registrare, custodire ed assaporare nuovamente. Il bello kantiano, il felice incontro tra le figure della mia immaginazione e le forme che colpiscono lo sguardo. Probabilmente quello che vedo rievoca film che ho già visto: i solchi sulla corteccia dei volti anziani che mi seguono con lo sguardo sono già stati filmati qualche decennio fa, dopo la guerra, nelle periferie di Roma, in Sicilia, a Napoli. La donna che mi viene incontro potrebbe essere un’attrice non professionista che attraversa lo schermo di una sala cinematografica italiana, negli anni ’40. Allora la sporcizia di certe immagini destava scandalo, dissonava con le aspettative del pubblico. Il suono opaco dei dialetti, l’irregolarità della città ripresa da un finestrino risultavano indigesti, come gli accordi minori, qualche secolo fa. Ora no. Ora filmare i lotti incolti di San Severo, contro lo sfondo delle case popolari, rischia di scivolare nella maniera, nel cliché. Devo fare attenzione a non accomodarmi nella comoda poltrona della citazione.
Eppure l’arte non può essere solo sacrificio, ascetica negazione del piacevole. Si rischia il pessimismo di quel personaggio di Lisbon story che decide di filmare il mondo con una cinepresa collocata dietro la schiena, in modo da ridurre al minimo il peso della propria presenza, del proprio gusto. Non posso riprendere un luogo con la frenesia infantile chi cerca di imitare i film del passato, schiacciando la realtà sotto il peso della storia del cinema. Ma non posso nemmeno negare il mio gusto, costruire un’estetica capovolta – “mi piace quest’inquadratura, e allora ne scelgo un’altra”.
La videocamera è un mezzo meccanico, una linea di confine tra il mondo chiaro dell’uomo e l’oscurità della materia. La videocamera riproduce le mie intenzioni, ma resta sempre un margine di autonomia di questo strumento mostruoso, metà umano e metà alieno. Il suo lavoro non si esaurisce nelle direttive che io le ho dato. Fa qualcosa in più. Mi porta qualcosa in più, qualcosa di nuovo. Il margine di libertà che questo meccanismo mantiene è quanto di più prezioso io possa avere, mentre registro la realtà. Quante volte mi è capitato di riprendere un evento, un gruppo di persone, e poi, riguardando il girato, di accorgermi di dettagli e figure a cui non avevo fatto caso. L’impossibile di Maurice Blanchot, ciò che deborda dalle mie possibilità di controllo, dai limiti del mio orizzonte. Ciò che deride la mia velleità di onnipotenza.


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