Cammino per le strade dei piccoli centri abitati pugliesi, e
al solito rimpiango di non avere un videocamera con me, immagino movimenti
laterali, sequenze, documentari. Gli anziani in canottiera seduti fuori dalla
porta, fermi lì da secoli, i tronchi rugosi degli ulivi, le case bianche col
tetto piatto - spagnole, greche, abbaglianti. I muri scorticati, la
pavimentazione in marmo delle vie. La carnagione scura di bambine in
bicicletta, familiari, esotiche. Inquadrature semplici, silenziose, discrete,
registrare figure che toccano le corde della memoria, della mia memoria. Da
anni, percorrendo i vicoli di San Paolo, progetto di dedicare alcuni minuti di
un film a queste strade dalla geometria improvvisata. Affollate e sempre
deserte. Mentre ci muoviamo dalla piazza verso casa vedo una donna che viene
verso di noi. Si trova a circa trecento metri. L’immagine è molto bella.
Andrebbe ripresa da lontano, stringendo su di lei, schiacciandola sullo sfondo
sfocato dei panni che festeggiano in cielo, delle finestre basse, del bianco
luminoso dei muri. Cammina verso di noi guardando in basso, con una borsa di
plastica in mano. Bello.
Perché bello? Perché mi pare che l’immagine sia così
cinematografica? Sembra davvero che il contatto tra il mio occhio e il
movimento della donna, dei panni, del vento sia eccezionalmente armonico. Così
integrato da richiedere di essere catturato e riprodotto. Un piacere da
registrare, custodire ed assaporare nuovamente. Il bello kantiano, il felice
incontro tra le figure della mia immaginazione e le forme che colpiscono lo
sguardo. Probabilmente quello che vedo rievoca film che ho già visto: i solchi
sulla corteccia dei volti anziani che mi seguono con lo sguardo sono già stati
filmati qualche decennio fa, dopo la guerra, nelle periferie di Roma, in
Sicilia, a Napoli. La donna che mi viene incontro potrebbe essere un’attrice
non professionista che attraversa lo schermo di una sala cinematografica
italiana, negli anni ’40. Allora la sporcizia di certe immagini destava
scandalo, dissonava con le aspettative del pubblico. Il suono opaco dei
dialetti, l’irregolarità della città ripresa da un finestrino risultavano
indigesti, come gli accordi minori, qualche secolo fa. Ora no. Ora filmare i
lotti incolti di San Severo, contro lo sfondo delle case popolari, rischia di
scivolare nella maniera, nel cliché.
Devo fare attenzione a non accomodarmi nella comoda poltrona della citazione.
Eppure l’arte non può essere solo sacrificio, ascetica
negazione del piacevole. Si rischia il pessimismo di quel personaggio di Lisbon story che decide di filmare il
mondo con una cinepresa collocata dietro la schiena, in modo da ridurre al
minimo il peso della propria presenza, del proprio gusto. Non posso riprendere
un luogo con la frenesia infantile chi cerca di imitare i film del passato,
schiacciando la realtà sotto il peso della storia del cinema. Ma non posso
nemmeno negare il mio gusto, costruire un’estetica capovolta – “mi piace
quest’inquadratura, e allora ne scelgo un’altra”.
La videocamera è un mezzo meccanico, una linea di confine tra
il mondo chiaro dell’uomo e l’oscurità della materia. La videocamera riproduce
le mie intenzioni, ma resta sempre un margine di autonomia di questo strumento
mostruoso, metà umano e metà alieno. Il suo lavoro non si esaurisce nelle direttive
che io le ho dato. Fa qualcosa in più. Mi porta qualcosa in più, qualcosa di
nuovo. Il margine di libertà che questo meccanismo mantiene è quanto di più
prezioso io possa avere, mentre registro la realtà. Quante volte mi è capitato
di riprendere un evento, un gruppo di persone, e poi, riguardando il girato, di
accorgermi di dettagli e figure a cui non avevo fatto caso. L’impossibile di
Maurice Blanchot, ciò che deborda dalle mie possibilità di controllo, dai
limiti del mio orizzonte. Ciò che deride la mia velleità di onnipotenza.
Nessun commento:
Posta un commento