martedì 11 giugno 2013

Primi giorni di giugno. L’incoscienza giovane del sole, la luce più bella dell’anno che passa spietata sui funerali e sui matrimoni.
In macchina, con la radio accesa. La regolarità armonica della musica fa da colonna sonora al piano-sequenza proiettato sul parabrezza, sui finestrini, sul retrovisore. E tutto sembra sensato, orientato. I legami tra le cose sembrano i particolari di un tessuto sterminato, di una danza raffinata, dettagliata, intrecciata con la cura con cui un ragno architetta la propria bava. Una bella ragazza mulatta cammina sul ciglio della strada. Ha le cuffie. Scorre via in pochi secondi.
Ai tempi della scuola mi capitava spesso di ascoltare musica mentre mi preparavo ad uscire. E poi il lutto dell’istante in cui spegnevo lo stereo, e la colonna sonora che dava significato al mondo s’interrompeva brusca, drastica. E poi uscire con la nostalgia di quell’entusiasmo musicale lasciato a casa.
Molte volte ho pensato che sarebbe stato bello portarsi appresso una paio di cuffie microscopiche, e mantenere in sottofondo, costante, una musica che desse senso alle immagini, agli eventi, agli incontri. Ai pomeriggi dilatati. Alle attese prolungate nella piazza anonima di Pomezia. Al colore sciapo delle pareti senza memoria. Una musica che mi permettesse di cogliere il nesso, di non perdere il filo, che trasformasse l’esistenza in un tutto organico, cinematografico.
Che orrore.
Schopenhauer, scrivendo le pagine del Mondo dedicate alla musica, deve aver avvertito uno stato d’animo simile: Rossini che permette di cogliere il Vero. L’armonia e la melodia che rendono udibile, tangibile il senso più profondo dell’esistenza. L’autentico significato di un evento.
Chissà come avrebbe reagito Schopenhauer di fronte alla visione di tre, dieci versioni della stessa sequenza video, ciascuna montata con un sonoro diverso… Una volta accompagnata da Bach, un’altra da un pezzo jazz brillante e noioso, un’altra con le orchestrazioni aggressive di Varèse. Poi con il sonoro in presa diretta – senza musica. E ancora con le immagini che vanno da sole, senza alcun suono o rumore. Qual è il senso? Qual è quello vero? Quale preferisco?
Perché sopportiamo meglio la precarietà delle immagini di quella del sonoro? L’accostamento graffiante di inquadrature incoerenti, girate in formati diversi, in epoche diverse, con luci, colori, qualità dissonanti: questo è ormai abbastanza digeribile. L’incoerenza sonora, l’imprecisione dei tagli, il rumore di fondo restano ancora indigesti. La traccia audio salvaguarda la mia permanenza, la mia unità. Garantisce l’immortalità dell’anima.

Vedendo Un’ora sola ti vorrei, di Alina Marazzi – il ritratto provvisorio dell’assenza, un insieme di frammenti di memoria dichiaratamente in conflitto – ho avvertito il netto contrasto tra audio e video. I rumori sono doppiati. Il percorso sonoro non ha buche, è ben asfaltato, coerente. Sono sempre io a riorganizzare il mondo, mi dice. Sono sempre io, al di là delle mie tante metamorfosi. Sono sempre io. Il punto di fuga della (dalla) vita. Il riparo che difende dalla dispersione.

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