venerdì 17 maggio 2013


Bello, piacevole, dissonante, armonico.
In un pomeriggio qualunque sto seduto sul divano di casa. Accanto a me c’è Francesco, pensatore sottile e psicologo implicito. Guardiamo la tv, senza un motivo particolare, senza destinazione, senza interesse: come fare il morto a galla negli ultimi minuti di una giornata di mare. C’è una trasmissione in cui vengono offerti allo sguardo del pubblico uomini alti mezzo metro, donne tatuate sotto le palpebre, individui con orecchini piantati sotto le unghie. O forse no, forse ricordo male. Forse si tratta di una di quelle trasmissioni in cui un gruppo di giovani depilati discutono dei loro sentimenti e delle loro emozioni. Non riesco a mettere a fuoco se sia l’uno o l’altro programma, ma cambia poco. L’intenzione degli autori è comunque quella di stuzzicare le tante corde emozionali dello spettatore contemporaneo: il disgusto, la compassione, il senso di superiorità, l’aggressività compressa, l’onnipotenza virtuale, il sadismo, la diffidenza.
La nostra rabbia antica è ormai fossile. Silenziosa, rancorosa, sorridente, adeguata.
Cominciamo a riflettere su un possibile atto di terrorismo estetico. Quale potrebbe essere l’evento improvviso, il gesto, l’attentato che squarcia il velo di questa tragica monotonia? Prima proposta, istintiva e viscerale: mentre la presentatrice parla, con il suo sorriso sovraesposto, le arriva una secchiata di merda in faccia. No. Ci rendiamo immediatamente conto che sarebbe un errore. Il sistema televisivo – e non solo quello televisivo – si alimenta di eventi di questo genere, volgari, raccapriccianti, disgustosi. Anzi, la nostra scelta sarebbe un boccone prelibato, verrebbe trasformata immediatamente in linfa vitale. Per settimane, mesi, su youtube migliaia di utenti guarderebbero divertiti la sequenza della donna ridicolizzata. Altro che terrorismo estetico.
La seconda ipotesi è più seria, violenta: un colpo d’arma da fuoco colpisce il primo piano del conduttore. Ma questa soluzione è di gran lunga peggiore della precedente. Al di là delle questioni morali, il sistema si rafforzerebbe, i suoi soldati, per di più, otterrebbero il premio del martirio. In ogni caso, il risultato non sarebbe molto diverso da quello ottenuto dalla prima proposta: i telegiornali, il web, i canali di comunicazione riproporrebbero a getto continuo il simulacro dell’orrore, e il bimbo continuerebbe a dormire il suo dolce sonno, dietro una parvenza di scandalo e shock.
No. Sono proposte da dilettanti.
Forse dovremmo riflettere con attenzione e cercare di definire cos’è davvero il terrorismo estetico. Cos’è che terrorizza il sistema? Cos’è che dà davvero scandalo, un terrore così profondo da indurre questo grande animale a rimuovere ogni traccia, ogni riflesso, ogni immagine di ciò che lo provoca? Cos’è che fa paura? Gli spari, la violenza, la decomposizione dei corpi, la deformità; le urla, la sofferenza, l’agonia; il sadismo, la notte, la sporcizia, la violenza estrema: tutte immagini che l’uomo contemporaneo desidera, va a cercare, predilige, seleziona con gusto – qualunque sia la giustificazione che egli si dà di questo desiderio.
Pasolini abiurò la trilogia della vita sostenendo che la sessualità dirompente che in quei film si esprimeva era stata immediatamente digerita dal sistema. In pochi anni si era passati dal Decameron a Quel gran pezzo dell’Ubalda. No, bisogna fare molta attenzione: il sistema si aggiorna con grande rapidità, e così fa la sua ombra. Il taglio dell’occhio di Bunuel diventò maniera già qualche mese dopo la sua comparsa sugli schermi parigini. Ora, dopo più di ottant’anni, io lo posso inserire in un videoclip qualunque e ricevere complimenti sinceri da chi lo guarda.
Io e Francesco riflettiamo come fossimo in un laboratorio. E ci sembra che, nei nostri tempi, ciò che c’è di più terribile, di più indigeribile, di più dissonante sia la noia. Ci si affanna ad evitarla con meticolosa attenzione. La rottura del ritmo narrativo è la rappresentazione più spaventosa dell’angoscia: c’è un problema tecnico e per otto minuti non si riesce a cambiare inquadratura. E magari si tratta di un’inquadratura stretta su un punto insignificante dello studio televisivo, dove non accade niente. E magari si guasta anche l’audio, il che impedisce di rimediare con qualche battuta spettacolare pronunciata fuori campo. La noia è il rimosso del nostro sguardo, l’ombra che tento disperatamente di dimenticare, ma che mi riempie dall’interno, inumidisce i vestiti, le parole, le lenti a contatto. Come un folle che si affannasse a liberare Venezia dall’acqua e non riuscisse a dormire per i reumatismi.
Proviamo a prendere il potere per una sola serata – ci diciamo –, e mandiamo in onda a reti unificate una serie di inquadrature di dieci minuti l’una, piani-sequenza girati con macchina fissa, campi lunghi che riprendono paesaggi ordinari: strade, periferie, campagne, spiagge, edifici. Quel che si può vedere da una finestra qualsiasi, e senza che accada nulla di spettacolare. Inquadrature ampie, indefinitamente ampie, con una durata sbagliata, dissonante, che faccia andare la narrazione fuori tempo. I telespettatori cambierebbero sicuramente canale. E se non fosse possibile? Probabilmente scoppierebbe la rivoluzione, una volta tanto. Il sistema insorgerebbe contro l’insopportabile. Forse.
In quei momenti ho pensato che il titolo da dare ad un laboratorio di cinema poteva essere proprio questo, Fuori tempo.
Io e Francesco abbiamo poi ripreso a fare i morti a galla davanti alla tv.

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