Qualche giorno fa sono stato a Lamoli di
Borgo Pace con alcuni ragazzi delle scuole superiori di Urbino, per un
laboratorio di cinema. Quattro giorni molto belli, durante i quali, tra le
altre attività, abbiamo fatto molte riprese.
Lamoli è un centro davvero piccolo, sospeso
tra Marche, Umbria e Toscana. Silenzioso. Dilatato. Passeggero. In alcuni
momenti il suo ritmo mi ha ricordato quello che ascoltavo a Srebrenica, qualche
anno fa: la stessa attesa, la cadenza regolare del passaggio di qualche auto,
ogni tanto. Le colline intorno, un po’ cupe, a difendere e imprigionare le
case. In cima alle colline gli alberi tesi, come i guerrieri di Kurosawa che si
apprestano alla battaglia. Eppure il rumore di fondo era diverso,
necessariamente. A Srebrenica è impossibile ripulire lo sguardo dal cono
d’ombra della guerra.
Avevo pensato di riprendere questo ritmo,
questa lentezza.
Ho assistito, non visto, ad una scena del
tutto ordinaria. Un ragazzo di colore si è avvicinato alla porta di
un’abitazione. Ha bussato, una donna anziana gli ha aperto. Lui ha riproposto
il suo solito discorso di richiesta-offerta, ma dopo tre parole l’altra ha
richiuso la porta. Il ragazzo è rimasto fermo qualche istante, poi si è
guardato intorno. Non era scosso né rassegnato. Sicuramente gli capiterà molto
spesso una reazione del genere. Finalmente si è mosso, camminando verso la
strada con il passo morbido dei giocatori di basket. Nient’altro. Ho pensato
che se avessi avuto con me la videocamera avrei potuto filmare questo inutile
evento, questo accidente effimero nella storia universale. Poco interessante,
senza morale. (Quella sull’integrazione degli immigrati esigerebbe fatti ben
più consistenti e succosi di questo). E poi non era il significato morale ad
attrarmi. Mi colpiva il ritmo della scena, e come questo ritmo si sciogliesse
armonicamente in quello generale del contesto, nella sinfonia discreta di
questo centro abitato.
Ma la videocamera era in albergo. E anche
se l’avessi avuta con me forse non avrei filmato.
Per paura, per pudore. Per vergogna,
imbarazzo. Puntare l’obiettivo contro qualcuno mi mette a disagio. Non so cosa
accada ad altri che fanno questo lavoro: a dire il vero, sento parlare poco di
questo disagio. Non è un gesto innocente, o almeno io non lo avverto così.
Filmare gli attori che recitano un copione che tu gli hai assegnato attenua
questo pudore, ma modifica anche il piacere di sorprendere l’imprevisto.
Riprendere visi, gesti, rumori, eventi casuali, per strada, non ha lo stesso
sapore di costruire una scena, in un contesto scenografico controllato, con
azioni preventivate in modo più o meno dettagliato. Non è più bello: è diverso.
Ma questo piacere si accompagna all’ansia, alla vergogna.
Il mio amico fotografo Alessandro un giorno
mi ha detto: “Il vero reporter
usa il grandangolo, non il teleobiettivo. Col teleobiettivo ti tieni a
distanza”. Ecco, se l’affermazione di Alessandro è vera (ed è probabile che lo
sia), io non sono un reporter.
Forse si dovrebbe correre all’indietro, sul
filo dell’evoluzione, e recuperare ciò che giace al di sotto della macchina da
presa, al di sotto dell’atto del guardare, del registrare. L’arma tesa contro
l’altro di cui ho già parlato nella prima pagina del blog. Il desiderio di
appropriazione, peccaminoso, illecito. Blasfemo.
Ho letto, qualche tempo fa, un
bell’articolo di Sylvie Rollet, Lo scudo di Perseo: le figure del doppio in
“Viaggio a Cytera” di Anghelopulos.
L’autrice confronta lo schermo cinematografico con lo scudo che Perseo adopera
per uccidere la Gorgone. Ucciderla evitando di incrociarne lo sguardo mortale.
Colpirla nel suo riflesso, per non guardarla direttamente.
Quando lo scudo che ci difende dall’occhio
di Medusa – e dal nostro stesso desiderio – è lucidato con troppa cura, e la sua superficie è levigata
fino al minimo grado di opacità, allora c’è il rischio di dimenticare che si
tratta di un riflesso, confondere l’alterità con l’identità. Fraintendere il
proprio potere.
Forse è proprio in quel caso che si manca
il bersaglio. E la Gorgone è già altrove.
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