A cosa serve parlare di cinema.
Non vedevo Le Mépris di Godard da molto tempo, e avevo dimenticato che si apre con la citazione di Bazin. “Il cinema sostituisce al nostro sguardo il mondo che desideriamo”.
Il cinema come tragica dissociazione. Antica, solita illusione di dissociazione. L’uomo raccoglie da terra un ramo spezzato che gli permette di prolungare il suo braccio, una protesi che gli consente (forse) di arrivare altrove. Un’arma, un ponte, uno strumento che congiunge e dissocia dalla natura. È l’illusione di essere contronatura, al di fuori, al di là, al di sotto, al di sopra di essa. Estraneo. E il bastone si deforma, si contorce: una spada, una macchina, una penna. Una macchina da presa. Lo sguardo stesso dell’uomo come illusione di non-appartenenza, di estraneità. Di alienazione.
Non vedevo Le Mépris di Godard da molto tempo, e avevo dimenticato che si apre con la citazione di Bazin. “Il cinema sostituisce al nostro sguardo il mondo che desideriamo”.
Il cinema come tragica dissociazione. Antica, solita illusione di dissociazione. L’uomo raccoglie da terra un ramo spezzato che gli permette di prolungare il suo braccio, una protesi che gli consente (forse) di arrivare altrove. Un’arma, un ponte, uno strumento che congiunge e dissocia dalla natura. È l’illusione di essere contronatura, al di fuori, al di là, al di sotto, al di sopra di essa. Estraneo. E il bastone si deforma, si contorce: una spada, una macchina, una penna. Una macchina da presa. Lo sguardo stesso dell’uomo come illusione di non-appartenenza, di estraneità. Di alienazione.
Se il cinema germoglia sulla tragica
frattura che crediamo ci distingua dalla vita, che senso ha moltiplicare ancora
questa dissociazione? Perché parlare, costruire concetti, sostituire le parole
allo sguardo? Parlare piuttosto che partecipare. Parlare di cinema: dissociarsi
da una dissociazione. Copia di copia.
Perché non abbandonarsi, addormentarsi,
lasciarsi cullare dalla voce impostata, ipnotica del mito? Degli dèi, degli
eroi. Lasciarsi portare dai carrelli laterali, dal montaggio invisibile.
Dimenticare.
Tempo fa osservavo una bambina e il suo
papà agitarsi sulla sedia di fronte al montaggio alternato di una sequenza di Back
to the future. Ed io
dietro di loro, come la rigida cerebralità di un vigile. Perché non sciogliersi
nell’utero rassicurante della sala buia? E mantenere invece quel margine di
veglia, come l’intervallo che separa un fotogramma dal successivo. Come lo
spazio bianco tra le parole. Come si dice nelle pagine di quel libro che ho
letto alcuni mesi fa, Tra le immagini. Per una teoria dell’intervallo.
Eppure – forse – la bellezza del cinema risiede proprio lì, in quello spazio,
in quella separazione antichissima. Nel rifiuto, nel disprezzo. Nel tragico
destino di sentirsi contronatura, apolidi. Appartenenti e non appartenenti.
Come un osso che si frattura, e nella crepa si forma il nuovo tessuto che cerca
di ricomporre l’irrevocabile. Ed è fatto di racconti, di occhiali, di parole.
Di riflessi. Di riflessioni.
I fiori che fioriscono tra il regista vero e la
sua copia, nel viaggio in moto di Close up.
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