giovedì 23 aprile 2015


Qualche giorno fa ho presentato Zabriskie Point, durante una delle serate del laboratorio. Difficile trovare un’unica chiave d’accesso per le tante porte di un film. Di un film così bello. Ne ho selezionate alcune, alcuni percorsi per cercare di entrare, di decifrare la silenziosa forza comunicativa dell’immagine. Uno di questi è il pulsare delle inquadrature. L’incontro tra lo sguardo e il luogo si esprime in una continua, potente variazione delle proporzioni e delle dimensioni. Mark e Daria sono in primo piano, riempiono una porzione molto estesa dello schermo. Lo sfondo dei calanchi cerebrali è schiacciato contro di loro. Enorme. Sfocato. Poco dopo i due sono piccolissimi, minuscoli punti scuri che si muovono appena in una regione decentrata dell’inquadratura. Insetti giocosi in un orizzonte sterminato, antichissimo, consapevole. Le dimensioni cambiano improvvisamente. Scaraventati nell’incommensurabile, nello sproporzionato. I personaggi, noi spettatori, il regista, l’operatore. Così accade nel deserto di Professione: Reporter. Così sull’isola di Lisca Bianca. O nel parco di Londra. Difficile, inusuale guardare così lontano. In quante occasioni mi capita di dover guardare così lontano? Di dover guardare lo smisurato? Qui in Europa è raro, forse.
Devo fare un breve montaggio audio. Musica dissonante di Helmut Lachenmann a cui sovrappongo il discorso di Hitler, all’indomani del successo elettorale del ’33. Giovanna mi chiede di selezionare i momenti del discorso in cui la voce è più aggressiva, più rauca, più minacciosa. Importo il file audio sul programma di montaggio. Mi appare il diagramma del segnale sonoro. Cerco i picchi più elevati, quelli in cui l’intensità dell’emissione sonora è più alta. Non li trovo. Non ci sono picchi. Hitler parla sempre con lo stesso tono di voce. Minaccioso, rauco, aggressivo. E sempre più o meno con lo stesso volume. Taglio a caso. Monto gli estratti l’uno dopo l’altro, inserisco dissolvenze discrete sui tagli di montaggio. Non si nota più nulla, sembra un discorso unico, continuo, senza interruzioni. La sua voce non pulsa, non ha cadute di tono. Non ci sono momenti di riflessione, o parentesi di maggiore confidenza. Crescendo, climax, arresti. Niente, è tutto uguale. E la cosa più terribile è che questo è un grandissimo vantaggio per me. Me la sbrigo in due minuti. Il discorso di Hitler è costruito secondo l’estetica della prevedibilità assoluta. Non respira, non c’è l’alternarsi di vuoto e pieno. Non c’è sproporzione.
Qualche anno fa sono arrivato in una città straniera, e ho aspettato a lungo il proprietario dell’alloggio prenotato per telefono. Il quartiere era poco accogliente, inquieto. O forse lo eravamo noi che aspettavamo sotto la pioggia. Una normalissima pioggia che sembrava pioggia straniera. Finalmente arriva. La prima cosa che mi colpisce è che non ha i denti. Avrà quarant’anni e non ha più di un paio di denti in bocca. E la mia inquietudine aumenta. E l’estetica hitleriana in cui affondano le mie radici mi fa dubitare della sua credibilità. Tutti i miei pensieri, le riflessioni, le argomentazioni sono solo schiuma leggera, impotente di fronte all’oceano di abitudini e all’educazione forzata che ha modellato il mio occhio. Il mio modo di guardare. Le “libere” associazioni mentali. Ho con me la videocamera e gliela punto contro come un’arma da difesa. Lui si imbarazza. Sorride.
È possibile imparare a puntare l'occhio verso la mezzanotte di un'assenza? Senza voltare lo sguardo.

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