Qualche
giorno fa ho presentato Zabriskie Point,
durante una delle serate del laboratorio. Difficile trovare un’unica chiave
d’accesso per le tante porte di un film. Di un film così bello. Ne ho
selezionate alcune, alcuni percorsi per cercare di entrare, di decifrare la
silenziosa forza comunicativa dell’immagine. Uno di questi è il pulsare delle
inquadrature. L’incontro tra lo sguardo e il luogo si esprime in una continua,
potente variazione delle proporzioni e delle dimensioni. Mark e Daria sono in
primo piano, riempiono una porzione molto estesa dello schermo. Lo sfondo dei
calanchi cerebrali è schiacciato contro di loro. Enorme. Sfocato. Poco dopo i
due sono piccolissimi, minuscoli punti scuri che si muovono appena in una
regione decentrata dell’inquadratura. Insetti giocosi in un orizzonte
sterminato, antichissimo, consapevole. Le dimensioni cambiano improvvisamente.
Scaraventati nell’incommensurabile, nello sproporzionato. I personaggi, noi
spettatori, il regista, l’operatore. Così accade nel deserto di Professione: Reporter. Così sull’isola
di Lisca Bianca. O nel parco di Londra. Difficile, inusuale guardare così
lontano. In quante occasioni mi capita di dover guardare così lontano? Di dover
guardare lo smisurato? Qui in Europa è raro, forse.
Devo fare
un breve montaggio audio. Musica dissonante di Helmut Lachenmann a cui
sovrappongo il discorso di Hitler, all’indomani del successo elettorale del ’33.
Giovanna mi chiede di selezionare i momenti del discorso in cui la voce è più
aggressiva, più rauca, più minacciosa. Importo il file audio sul programma di
montaggio. Mi appare il diagramma del segnale sonoro. Cerco i picchi più
elevati, quelli in cui l’intensità dell’emissione sonora è più alta. Non li
trovo. Non ci sono picchi. Hitler parla sempre con lo stesso tono di voce.
Minaccioso, rauco, aggressivo. E sempre più o meno con lo stesso volume. Taglio
a caso. Monto gli estratti l’uno dopo l’altro, inserisco dissolvenze discrete
sui tagli di montaggio. Non si nota più nulla, sembra un discorso unico, continuo,
senza interruzioni. La sua voce non pulsa, non ha cadute di tono. Non ci sono
momenti di riflessione, o parentesi di maggiore confidenza. Crescendo, climax,
arresti. Niente, è tutto uguale. E la cosa più terribile è che questo è un
grandissimo vantaggio per me. Me la sbrigo in due minuti. Il discorso di Hitler
è costruito secondo l’estetica della prevedibilità assoluta. Non respira, non
c’è l’alternarsi di vuoto e pieno. Non c’è sproporzione.
Qualche
anno fa sono arrivato in una città straniera, e ho aspettato a lungo il proprietario
dell’alloggio prenotato per telefono. Il quartiere era poco accogliente,
inquieto. O forse lo eravamo noi che aspettavamo sotto la pioggia. Una normalissima
pioggia che sembrava pioggia straniera. Finalmente arriva. La prima cosa che mi
colpisce è che non ha i denti. Avrà quarant’anni e non ha più di un paio di
denti in bocca. E la mia inquietudine aumenta. E l’estetica hitleriana in cui
affondano le mie radici mi fa dubitare della sua credibilità. Tutti i miei
pensieri, le riflessioni, le argomentazioni sono solo schiuma leggera,
impotente di fronte all’oceano di abitudini e all’educazione forzata che ha
modellato il mio occhio. Il mio modo di guardare. Le “libere” associazioni
mentali. Ho con me la videocamera e gliela punto contro come un’arma da difesa.
Lui si imbarazza. Sorride.
È possibile imparare a puntare l'occhio verso la mezzanotte di un'assenza? Senza voltare lo sguardo.
È possibile imparare a puntare l'occhio verso la mezzanotte di un'assenza? Senza voltare lo sguardo.
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