Autunno.
Nel rettangolo del computer ho decine di immagini da montare. Solo una
successione confusa, caotica di inquadrature. Senza senso. Senza direzione.
Inorganiche. Il senso, se c’era, è andato via, come i colori desaturati di
novembre. Come il cielo omogeneo alla finestra, che mi ricorda l’impersonalità
spaventosa della costa occidentale inglese.
È
terribile questa impossibilità a trovare un contatto, iniettare la vita in una
serie di fotogrammi meccanici, astratti, slegati, estranei. E farne corpo vivo,
farne una sequenza, vedere germogliare una musica, un ritmo.
Voglio
fuggire, distrarmi, voltare lo sguardo di fronte ai pezzi mal composti di
questo mostro di Frankenstein esanime. Non riesco a stare sulla sedia. Come di
fronte al silenzio di cemento di un telefono che non squilla, di una lettera
che non arriva. Ineluttabile e regolare come il corvo di Poe. Fuga, fuga.
Qualsiasi luogo è meglio che stare qui. Andare a bere un bicchier d’acqua,
prepararmi un tè, controllare la posta, guardare fuori dalla finestra. Gettarmi
giù dalla finestra.
No. Devo
restare.
Non provo
mai a restare, a sopportare la pressione soffocante di questo campo magnetico,
di questa assenza, di questo dio decapitato, in decomposizione. E provare e
riprovare a montare, accostare le immagini l’una all’altra, aspettando un
motivo, aspettando che la mano del mostro si muova, aspettando che la fiamma
ingiallisca da sola, senza che io continui a buttare carta nel camino. Provare
a tenere in bocca il veleno. Provare a ingoiare.
Sì. Prima
o poi una direzione arriverà. Prima o poi troverò un senso. Riconoscerò la complessità
bella e variopinta di questo cielo grigio. E gli dirò di sì. E le dirò di sì. Come
uno sposo ubriaco.
Ma per
ora, mentre aspetto, com’è dolce abbandonarsi alla melodia maledetta e seducente che
mi invita a spegnermi.
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