Il cinema è violenza esercitata
sulla natura.
Il cinema è innamoramento e volontà di possesso. Febbrile impazienza, sindrome da abbandono che toglie lucidità, che
dispera e non si accontenta che lei esista. Ma vuole imprigionarla. Vuole
immortalarne la bellezza, rinchiuderla nell’ottusa infanzia di un rettangolo.
Chissà se è stato un Abilis o un Erectus o un Sapiens il primo a
trasformare il bastone in pennello. L’uccisione della preda moltiplicata
indefinitamente per mezzo dell’arte.
Senza sapere che la vita finiva lì, che dietro il desiderio di possesso
c’è la sospensione della vita, c’è lo sguardo alienato del medico di Ceylan che
osserva i bambini giocare attraverso la finestra.
Non è un caso che il cinema appena nato abbia filmato il
treno, il trionfo dell’uomo borghese sullo spazio-tempo, la strada ferrata e
artificiale che divora la natura. Che strangola la bellezza del viaggio, della
distrazione. Dal finestrino del treno tutto fluisce omogeneo, senza odore,
senza identità. Solo le sfumature estetizzanti della non-appartenenza. Solo il
gusto compiaciuto di un Don Giovanni che assapora mille aperitivi, senza mai
sedersi a tavola, senza mai compromettersi.
Sulla strada che taglia a metà il quartiere Ponte Armellina, a
Urbino, alle sette di sera. Estate. Profondità di campo narrativa: ci sono
almeno cinque piani compresenti, che interagiscono tra loro, in profondità. A
pochi metri dal mio occhio alcuni bambini, seduti sul marciapiede, disegnano.
Poco più avanti, altri si muovono in bicicletta. A metà della strada un uomo di
trent’anni circa, appoggiato al recinto di una casa, e ai suoi piedi suo figlio
di pochi anni, inginocchiato sull’asfalto. In lontananza, un gruppetto di
ragazzi chiacchiera intorno alla mia auto parcheggiata. In fondo, le
silhouettes di alcuni uomini e di una giovane donna con un passeggino. Cerco di
riprendere questo racconto che si dispiega in avanti, che approfondisce la
prospettiva. Un racconto che prolunga l’inquadratura, che le impedisce di
risolversi in quella successiva. Perché non c’è azione. È la sosta del treno. E
provo a fermarla, a catturarla, da buon borghese. Non mi riesce. Filmo molte
volte questa strada, senza riuscire ad acchiappare questa lontananza, e le
tante età dell’uomo che si distendono lungo la via.
È un’immagine rara. Se mi fermo a osservare le vie lunghe e
affollate di una città qualsiasi, sia pure un piccolo paese di provincia,
raramente vedo gruppi fermi, adagiati nella vasca del tempo che passa
lentamente. In genere ci sono schiene che si allontanano e visi che s’ingrandiscono.
Tutti camminano.
Ne parlo con un amico. Mi cita un alcuni film degli ultimi
anni che hanno sequenze simili. Quei film che provano a riesumare il cadavere
del fantasma del Neorealismo. Dove anche lo sporco sulle gambe degli attori
recita male. Sì è vero, qualche somiglianza c’è. E questo significa forse che
il sistema si è appropriato di questa bellezza, e che il mio modo di guardare e
di innamorarmi, la mia meraviglia di fronte a quest’immagine è figlia del
sistema, è un fac-simile partorito da un fantasma.
Riuscire a sopportare che lei guardi fuori campo, altrove, che non sia lei. Che metà del viso stia in campo e il resto sfumi
fuori dal rettangolo. Ripresa con macchina fissa, per simulare rispetto.
Per illudersi di non volerla
uccidere.
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