Primi
giorni di giugno. L’incoscienza giovane del sole, la luce più bella dell’anno
che passa spietata sui funerali e sui matrimoni.
In
macchina, con la radio accesa. La regolarità armonica della musica fa da
colonna sonora al piano-sequenza proiettato sul parabrezza, sui finestrini, sul
retrovisore. E tutto sembra sensato, orientato. I legami tra le cose sembrano i
particolari di un tessuto sterminato, di una danza raffinata, dettagliata,
intrecciata con la cura con cui un ragno architetta la propria bava. Una bella
ragazza mulatta cammina sul ciglio della strada. Ha le cuffie. Scorre via in
pochi secondi.
Ai
tempi della scuola mi capitava spesso di ascoltare musica mentre mi preparavo
ad uscire. E poi il lutto dell’istante in cui spegnevo lo stereo, e la colonna
sonora che dava significato al mondo s’interrompeva brusca, drastica. E poi
uscire con la nostalgia di quell’entusiasmo musicale lasciato a casa.
Molte
volte ho pensato che sarebbe stato bello portarsi appresso una paio di cuffie
microscopiche, e mantenere in sottofondo, costante, una musica che desse senso
alle immagini, agli eventi, agli incontri. Ai pomeriggi dilatati. Alle attese
prolungate nella piazza anonima di Pomezia. Al colore sciapo delle pareti senza
memoria. Una musica che mi permettesse di cogliere il nesso, di non perdere il
filo, che trasformasse l’esistenza in un tutto organico, cinematografico.
Che
orrore.
Schopenhauer,
scrivendo le pagine del Mondo dedicate
alla musica, deve aver avvertito uno stato d’animo simile: Rossini che permette
di cogliere il Vero. L’armonia e la melodia che rendono udibile, tangibile il
senso più profondo dell’esistenza. L’autentico significato di un evento.
Chissà
come avrebbe reagito Schopenhauer di fronte alla visione di tre, dieci versioni
della stessa sequenza video, ciascuna montata con un sonoro diverso… Una volta
accompagnata da Bach, un’altra da un pezzo jazz
brillante e noioso, un’altra con le orchestrazioni aggressive di Varèse. Poi
con il sonoro in presa diretta – senza musica. E ancora con le immagini che
vanno da sole, senza alcun suono o rumore. Qual è il senso? Qual è quello vero?
Quale preferisco?
Perché
sopportiamo meglio la precarietà delle immagini di quella del sonoro?
L’accostamento graffiante di inquadrature incoerenti, girate in formati
diversi, in epoche diverse, con luci, colori, qualità dissonanti: questo è
ormai abbastanza digeribile. L’incoerenza sonora, l’imprecisione dei tagli, il
rumore di fondo restano ancora indigesti. La traccia audio salvaguarda la mia
permanenza, la mia unità. Garantisce l’immortalità dell’anima.
Vedendo
Un’ora sola ti vorrei, di Alina
Marazzi – il ritratto provvisorio dell’assenza, un insieme di frammenti di
memoria dichiaratamente in conflitto – ho avvertito il netto contrasto tra
audio e video. I rumori sono doppiati. Il percorso sonoro non ha buche, è ben
asfaltato, coerente. Sono sempre io a riorganizzare il mondo, mi dice. Sono
sempre io, al di là delle mie tante metamorfosi. Sono sempre io. Il punto di
fuga della (dalla) vita. Il riparo che difende dalla dispersione.
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