sabato 29 agosto 2015

Pomeriggio di tarda estate. La macchina ferma sul ciglio della strada. Dal finestrino aperto vedo la sua figura femminile, di schiena, che scarica una busta nel secchione giallo della plastica. Tra il secchione e il legno del palo della luce ci sarà un metro circa. E lì, in quell’intervallo stretto, si muove una figura. Piccola, lontana, vestita di rosso. È una donna che sta lavorando la terra, piegata su un campo arato color aridità. Dietro di lei, ancora più distante dal mio finestrino, un trattore fa manovre che non riesco a decifrare. C’è un po’ di vento che riempie l’immagine. Penso che potrei lavorare su questa inquadratura fissa, giocare con la profondità di campo, col contrasto tra la figura giovane, contemporanea, in primo piano, e quelle lontane, rurali, che sembrano il riverbero della memoria collettiva. Memoria trascorsa, ma solo in apparenza. Immagino di accentuare il contrasto tra i vari piani narrativi. Lei potrebbe voltarsi e avere tratti più accentuatamente moderni, potrebbe controllare lo smartphone o avere una pettinatura particolare, eccentrica. Creare un conflitto, un conflitto interno alla memoria.
Ma subito immagino di zoomare sullo sfondo, sulla donna e sul trattore, mettendo in risalto il dettaglio; ingrandirlo, dargli importanza, permettendogli di conquistare una porzione molto più ampia dello schermo.
Ma no! Non è così che si lavora con la profondità! Non dovrei zoomare… Le figure della memoria devono restare sullo sfondo, piccole, marginali. È lo sguardo che deve sorprenderle, come un significato remoto. Riconoscerne il valore nascosto dietro la piccolezza, la contingenza passeggera, inutile.
Il problema è che non mi fido dello sguardo. Non riesco più a fidarmi. Immediatamente penso che una inquadratura del genere, prolungata, magari anche ben costruita, sarebbe comunque inefficace, non acchiapperebbe l’attenzione degli interlocutori. Annoierebbe. Ci vorrebbero ampi schermi spalancati nel buio di una sala cinematografica, mentre adesso la gran parte dei film o video si guardano su superfici piccole, in stanze illuminate e distratte.
Io stesso mi sento distratto. E quest’immagine mi regala un gusto troppo rapido e passeggero, con un lungo retrogusto amaro.
Sembra davvero che il tragico, la bellezza del tragico, la profondità del tragico che tuona dal sottosuolo sia scomparsa dallo schermo. Dalle immagini. Non riesco a indovinarla dietro al costume. Non riesco a spogliarla. Come accade nei sogni, nebbiosi, noiosi, insensati; piatti riflessi della quotidianità, fantasmi esangui. E poi li spogli, scavi nelle figure che emergono dal sonno, e ti accorgi di quanta polpa, quanto succo c’è. E mostri e demoni e archetipi. E madri, omicidi, stupri e orrore. E desiderio terribile.
Ma è troppo faticoso solo il pensare di sollevarmi da questo torpore, temperare la punta dello sguardo e bucare le ombre che mi danzano davanti, affacciarmi sull’universo che si apre dietro il sipario, cercare il punto di fuga verso cui tutti i fantasmi tendono.
La scena madre è stata cancellata. Il duello, l’omicidio. L’urlo catartico del totem sgozzato, il fragore del corpo fatto a pezzi e divorato non li sento più. Il film è costruito sull’attesa di un incontro, uno scontro, una lotta feroce che non si verifica mai. Un appuntamento perennemente rinviato, il corteggiamento telefonico tra il Bianconiglio e un fantasma. Baci e amplessi virtuali.
L’ultima scena di Cashè, di Haneke. Inquadratura fissa sull’ingresso della scuola. Lunga inquadratura. La gente si muove. Genitori, ragazzi, automobili. E l’occhio della cinepresa insiste, ossessivo, martellante. Quante volte ho visto questa scena. E solo dopo molte volte mi sono accorto che lì, in basso a sinistra, avviene un incontro importante tra due personaggi del film. Un evento che dà alla narrazione un significato nuovo, inatteso. Aperto. Eppure era lì, e non l’ho mai visto. L’occhio era completamente aperto e non ho visto nulla. Come lo sguardo vitreo di un cieco. Come una colpa dimenticata. Come un desiderio rimosso.
Qualcuno incontra lungo la strada un uomo addormentato a cui una serpe è entrata in gola. E il suo morso può trasformare il sonno profondo in morte. “Mordi!”, gli urla, perché l’uomo si svegli e stacchi la testa della serpe. E rida, come nessuno mai è stato udito ridere.

Speriamo che il sonno non sia già troppo profondo. E che l’uomo senta l’urlo.

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